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4 feb 2008

Tutti capi...niente arrosto!



La storiella della corsa di canoe su parecchi punti («tutti capitani» nessun lavoratore ) sembra riflettere i mali di alcune organizzazioni italiane, ma non tiene conto che proprio grazie alla disciplina, allo studio e al lavoro sodo, numerosi imprenditori italiani hanno portato in giro per il mondo il marchio del made in Italy.


C'era una volta, nel tredicesimo secolo, un giovane creativo, poco più di un ragazzo, che aprì una sfida con l'ignoto. Era di Venezia e voleva vedere il mondo e in particolare il Cipango, come allora si chiamava il Giappone. Non aveva dietro di se nessun potere organizzato, nessuna incertezza, nessuna conoscenza o metodologia stabilizzata, nessun Stato, come avranno i grandi navigatori portoghesi Diaz e Vasco da Gama. Aveva spirito creativo, coraggio, audacia, spirito individuale. E vinse aprendo la via verso l'Oriente e stabilendo contatti preziosi tra civiltà diverse. Marco Polo divenne persino per tre anni governatore di una grande provincia cinese su nomina dell'imperatore Kublai Khan. Questa opera fu il prodotto dell'individualismo creativo, fu il prodotto di italiani, non di uno Stato italiano. Due secoli dopo un uomo sulla quarantina, un emigrante italiano che portò con se sulla nave il libro di Marco Polo, voleva anch'egli raggiungere il Cipango, ma pensò che fosse raggiungibile via mare in direzione opposta a quella nella quale si era incamminato Marco Polo («Buscar el levante por el ponente»). Era solo, straniero, povero, con pochissimi mezzi e appoggi da parte di una donna, una regina che sfidò il parere contrario dei suoi dotti. «Colombo non era, è vero, né dotto né profondamente versato nella cosmografia ma possedeva qualcosa che va oltre il raggio della scienza. Le soluzioni a certi problemi non vengono date dalla scienza, ma dalla fede e dall'audacia degli uomini» (Prezzolini).
Fra Marco Polo e Cristoforo Colombo esiste una precisa relazione storica. Li unisce la creatività individuale, la passione, il coraggio, la visione, la perseveranza, l'audacia.
Contrapponendo questi grandi contributi alla civiltà umana, frutto della creatività piuttosto che della disciplina, della eterodossia, dell'indisciplina, dell'audacia individuale di italiani, coraggiosi e visionari, alla garbata e gustosa favola della corsa di canoe, non intendo in alcun modo sminuire o rifiutare il suo contenuto didattico. Essa pone in luce alcuni difetti nazionali sui quali è giusto riflettere, anche sullo stimolo dell'ironia della favola e cercare di correggersi. Già Sombart (rifacendosi attraverso Burckhardt al Novellino), ricordava di una città italiana del 1500 vittima della sindrome «Todos caballeros»: «La località un tempo, quando vi vivevano soltanto muratori e tessitori, era stata tradizionalmente ricca; ora che vi si vedevano soltanto speroni, staffe e cinture dorate invece di teloni e di attrezzi da muratore, e ora che ciascuno cercava di diventare dottore "utriusque iuris" o in medicina, notaio, ufficiale o cavaliere era subentrata invece la più nera miseria». Male antico dunque quello di «Todos caballeros» che si unisce al male di mancanza di disciplina e di spirito di team.
Non vi è dubbio che la storia delle canoe si applichi perfettamente al parlamento italiano, al governo italiano, e a numerosi altri ambienti italiani come le Regioni Campania e Sicilia. Ma senza disciplina organizzativa intelligente e consapevole non si organizzano le, probabilmente, migliori Olimpiadi invernali come ha fatto Torino; non si vincono i campionati mondiali di calcio, pur partendo svantaggiatissimi; non si salva la Fiat che tutti, italiani e stranieri, dichiaravano persa; non si crea con Unicredit una delle migliori e più solide banche europee; non si affermano nel mondo stili di vita dalla ristorazione alla moda ai mobili rappresentati da aziende e marchi di grande qualità come Armani, Benetton, Zegna, Versace, Dolce & Gabbana, Bulgari, Artemide, Snaidero e tanti altri; non si alimenta così a lungo un mito di eleganza ed insieme di scienza, di spirito sportivo, di management, come la Ferrari.
Piuttosto c'è da domandarsi se in questa fase storica è proprio la disciplina la dote più richiesta per il management, quella che dobbiamo principalmente coltivare. Io non credo. Abbiamo davanti a noi mondi nuovi da scoprire sia sul fronte produttivo, che culturale, che sociale. Al management compete un ruolo essenziale in questa ricerca. Ma il management di cui abbiamo bisogno è un management di creativi, di coraggiosi, di eterodossi.
Questa è una verità schiacciante. Il mondo nuovo non lo costruiranno le formiche obbedienti, ma i nuovi viaggiatori, i nuovi esploratori, i nuovi capitani coraggiosi, i nuovi Marco Polo e Cristoforo Colombo. I generali tedeschi, ottimi tecnici e professionisti preparatissimi, persero nell'ultima guerra mondiale tutte le battaglie decisive perché erano troppo disciplinati, obbedienti e servili agli ordini deliranti che ricevevano. E nei campi di concentramento nazisti dominavano l'ordine, l'efficienza e la disciplina.
Eppure, Sun-Tzu, il più grande stratega militare e, con una lettura evolutiva, aziendale di tutti i tempi già 2.500 anni fa aveva scolpito nella pietra le parole che sono il fondamento della professionalità e della responsabilità individuale: «In guerra il generale riceve il comando dal sovrano… Ma (una volta ricevuto l'incarico) ci sono strade che non devono essere seguite, città che non devono essere assediate, posizioni che non devono essere attaccate, ordini del sovrano che non devono essere seguiti… Se il generale è sicuro che il combattimento si tramuterà in vittoria, allora deve dare battaglia, anche se il sovrano la vieta; se il generale pensa che il combattimento non porterà alla vittoria allora non deve combattere anche contro l'ordine del sovrano».
Se io faccio una critica al management italiano attuale non faccio quella trasmessa dalla favola ma piuttosto quella di essere troppo obbediente, quasi servile alla volontà della proprietà, diluendo così il proprio ruolo, la propria professionalità, la propria responsabilità.
Per questo Fondazione Istud si appresta a lanciare il Premio Sun-Tzu nell'ambito del quale non verrà premiato il manager più «bravo» o di maggior «successo» o di maggior «visibilità» ma il manager che, con la sua opera, abbia dato prova di autonomia, coerenza, professionalità e responsabilità, onorando così la sua professione e il ruolo della stessa nella società.

* Presidente Fondazione Istud

ilsole24ore

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