A POCHI PASSI DALLA TANGENZIALE EST, NON LONTANO DALL’AEROPORTO DI LINATE
Duilio Forte, designer milanese, sperimenta in prima persona le sue innovative idee di architettura
MILANO - Per vivere in una palafitta a Milano, in una dimensione forse più legata al mondo animale che non alla società urbanizzata e ipertecnologica dei giorni nostri ci vuole coraggio. E questo coraggio lo ha sicuramente Duilio Forte, designer milanese fuori dal comune, che ha deciso di sperimentare su se stesso le sue innovative idee di architettura. Dopo un lungo via vai di telefonate – il navigatore satellitare da quelle parti non dava segni di vita -, ci ritroviamo in un luogo sperduto: tra la vecchia campagna abbandonata milanese e quel che resta delle risaie e delle ex industrie tessili, a pochi passi dalla tangenziale est, non lontano dall’aeroporto di Linate. Quarantadue anni, milanese, Forte è un designer che sfugge ai designer. Ha superato e reinterpretato l’architettura rompendo con tutto ciò che è facilmente progettuale e si è rifugiato in questa landa di terra ai margini della città, contesa da una campagna che resiste sottoforma di sterpaglia, con qualche principio di orto qua e là, mentre la periferia si allunga con i tentacoli senza sapere dove finirà.
Sulla porta di un’ex fabbrica tessile di cinquemila metri quadrati lasciata andare in rovina e ora ripristinata, l’architetto – che vive in una porzione della stessa – ci sta aspettando. Non sembra affatto un marziano. Tuttavia la sua casa rivela cosa è riuscito a realizzare: un fantasmagorico progetto sperimentato sulle sue stesse vertigini e sull’impossibilità di essere abitato con i criteri dei comuni mortali. «Nulla è terminato e questa casa la intendo come una palafitta sulla città – spiega il designer -: un luogo che è molto più vicino ad un nido di un albero che a una vera abitazione in cemento senz’anima». Iniziamo con lui un delirante viaggio tra punte in ferro minacciose che sporgono da ogni porta o portone, dove svettano robot tridimensionali pensati come scrivanie e sedia per i computer, volumi sospesi in aria, fornelli da campeggio senza una struttura portante, grovigli di forchette appese ovunque in una sequenza disordinata e modulare, accenti di rosso sull’ossido di ferro ispirato alle sue origini materne svedesi. E su tutto spicca un evidente senso del pericolo trasformato ad arte per essere violato ogni volta.
«Vivo il pericolo con il senso della trasformazione visiva e amo i pavimenti aggettanti, le botole, le scorciatoie, la suggestione del perdersi dentro ad una casa, il senso dello smarrimento. Chi viene nella mia abitazione assiste ad un disorientamento che poi sfocia nel turbamento alla vista del cavallo di Odino dalle lunghe gambe esposto nel giardino, molto simile ad una palafitta alta dieci metri». Per arrivare (con l’acqua alla gola) al maestoso cavallo di Odino e alle palafitte limitrofe, occorre attraversare tenendosi ben saldi ai vari corrimani delle scale sproporzionate che si allargano e stringono come una calza di nylon, per poi oltrepassare dei soppalchi adornati di ogni amuleto vichingo appartenente alla mitologia scandinava, transitando tra reperti di scienza e magia, misticismo e ingegneria.
«Ho iniziato a pensare a questo schizzo di casa che non finirà mai – spiega Forte - quando ero studente al Politecnico di Milano, volevo dare sfogo alla mia fantasia, ma anche alla storia, cercando di armonizzare l’impossibile e la presenza dei reperti che ho scovato dappertutto in una sinfonia che esprimesse il mio contrappunto spaziale. Basta pensare alle porte che creano dei legami e poi li distruggono quando si chiudono». Arriviamo sul tetto. La tangenziale è ancora là, qualche residuo di contadino va nel suo orto, mentre attraversiamo la passerella di trave sospesa sul cortile interno. Facendo i conti con meraviglia e paura, bisogna tendere la mano all’ennesima scala sospesa nel vuoto per arrivare in mezzo ad un passaggio che attraversa un albero. Arrivo fin lassù e trovo nel ventre del cavallo di legno la sauna di Duilio. «Questo è tutto quello che c’è nella mia testa».
Non lo poteva certo sapere Ettore Forte, il papà di Duilio, chirurgo di professione e la mamma, una casalinga che all’insaputa ha foraggiato la fantasia del figlio raccontando le storie del mondo nordico. L’unica «colpa»? Avergli regalato un banco da falegname quando aveva solo cinque anni. Prima di lasciare la casa impossibile, pensando al nulla che la circonda, viene spontanea una domanda: «Ma lei il pane dove lo compera?». Risposta: «Lo faccio nel forno della mia casa. Non uso la corrente, ma è molto buono».
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