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10 nov 2009

Ecco i piccoli senza Welfare che resistono Professionisti, partite Iva e imprese: i numeri e le storie di un’Italia invisibile



In questi mesi ho partecipato a numero­se assemblee di piccoli imprenditori e arti­giani che vogliono continuare a tenere aperte le aziende. Nei cinema parrocchiali di Jerago, nei capannoni industriali di Bu­sto Arsizio, nei teatri comunali di Besnate, in una ex cascina di Moretta a cavallo tra le province di Torino e Cuneo e poi a Vare­se, nelle associazioni industriali del Nord est, nei distretti del made in Italy.



Ad orga­nizzare queste forme di protesta e di mobi­litazione sono le sigle più impensate: da­gli artigiani «ribelli» del Varesotto, ai Con­tadini del tessile, da «Imprese che resisto­no » alle organizzazioni di rappresentanza come Confartigianato e Cna. E per la pri­ma volta nella storia politico-sindacale d'Italia ci sono stati due cortei di imprendi­tori, a Torino in luglio e a Firenze proprio ieri. Assieme alla partecipazione alle assem­blee in questi mesi il «Corriere» ha raccol­to anche le testimonianze di realtà ancor meno aggregate, come i professionisti e i titolari di partita Iva. Due mondi che fatica­no persino a trasmettere all’opinione pub­blica le proprie istanze. Anche per loro la crisi si è rivelata un calvario, il giro di affa­ri delle ditte individuali si è pericolosa­mente contratto, gli studi professionali hanno cominciato a lasciare a casa i pro­pri collaboratori, il terziario italiano si è ri­velato un’infrastruttura troppo fragile per coltivare progetti di sviluppo. Piccoli im­prenditori, artigiani, professionisti e parti­te Iva ci sono sembrati i moderni Invisibi­li. Per loro non ci sono lobby e riflettori accesi, quando i cancelli di una piccola im­presa chiudono non si vedono sindaci con fascia tricolore, bandiere o megafoni così come quando un giovane avvocato da un giorno all’altro finisce per strada la solitu­dine si tocca con mano. Nel Paese della concertazione oggi soffriamo di un clamo­roso deficit di rappresentanza. La politica resta sullo sfondo tutta presa da suoi riti autoreferenziali, la grande impresa non è più capace di distribuire chance di svilup­po, le banche appaiono delle roccaforti inespugnabili e sorde. Tra tante delusioni ciò che è restato vivo è il legame tra il pic­colo imprenditore e i suoi dipendenti, un rapporto che anzi è uscito rafforzato. Le comunità non si sono spezzate a dimostra­zione della solidità dei valori sui quali si è basata la crescita delle piccole imprese e dei distretti made in Italy.

Il movimento dei Piccoli un primo risul­tato importante lo ha avuto: ha rotto la spi­rale della solitudine e ha incoraggiato mol­ti artigiani a tener duro. Si temeva che la chiusura per le ferie estive equivalesse a un’ecatombe di aziendine, fortunatamen­te non è andata così. Ma la situazione re­sta in bilico, più sarà lunga l'uscita dalla crisi più il rischio di deindustrializzazione sarà concreto. In base agli ultimi dati di­sponibili sulle esportazioni ci sono infatti solo 11 distretti italiani su un campione di 104 che sono riusciti a non perdere ordini o addirittura a incrementarli. Persino Sas­suolo, capitale della ceramica, che per tem­po aveva fatto a suo modo i conti con la concorrenza cinese sui prezzi, farà segna­re a fine anno -25% di ricavi. Ma si segnala­no situazioni molto difficili in diversi terri­tori: La pelletteria fiorentina, le sedie di Manzano, le macchine per la concia di Vi­gevano, il meccanotessile di Biella, la mec­canica strumentale di Vicenza hanno fatto segnare in base agli ultimi dati disponibili le più forti contrazioni nell’export. A Co­mo non solo sono crollati i ricavi delle aziende della seta ma si rischia un effetto Prato per la crescita di laboratori clandesti­ni gestiti da cinesi che si sono via via sosti­tuiti agli artigiani locali. Anche nel Vare­sotto, nella zona di Jerago e Gallarate, la meccanica che lavora per conto terzi è in grave sofferenza. In tutti questi casi quel­lo che si va palesando è un eccesso di capa­cità produttiva. Per questo motivo la paro­la d’ordine che comincia a circolare (con fatica) è quella dell’aggregazione. Ci sono prime esperienze costruite dal basso, co­me a Tradate in provincia di Varese, che puntano a ricostruire la filiera produttiva e a presentare le piccole direttamente sul mercato con un loro prodotto finito. Sarà importante vedere che dinamiche si met­teranno in moto nel Nord Est dove la tradi­zione individualistica è ancora più radica­ta che altrove e le resistenze a mettersi as­sieme con un concorrente sono forti.

Il boom delle partite Iva

I dati dell’Unioncamere ci dicono che il numero delle ditte individuali è in aumen­to anche negli ultimi mesi. È vero che il lavoro autonomo continua ad attrarre gli italiani che non amano né l’impiego pub­blico né indossare la tuta blu, ma in tem­po di crisi la partita Iva sta diventando lo strumento più snello per restare comun­que agganciati al mercato del lavoro. Co­mincia a verificarsi sempre più spesso che chi perde il posto fisso la apre. Casi di que­sto tipo sono segnalati soprattutto nel­l’area milanese alla Mivar o alla Nokia-Sie­mens, ma potrebbero diventare prassi co­mune nel momento in cui la cassa integra­zione non riuscisse più a coprire i dipen­denti delle aziende in crisi. Le poche inda­gini che riguardano questo mondo ci dico­no che una partita Iva lavora in media 7 ore di più la settimana di un lavoratore di­pendente e che quando va a carte quaran­totto spesso non accade per imperizia per­sonale ma perché fallisce un loro commit­tente a monte. È chiaro che gli 8,8 milioni di partite Iva, tolti i due milioni di inattive o che comunque sfuggono ai rilievi del fi­sco, finiscono per farsi una concorrenza bestiale. Si è parlato tanto di liberalizzazio­ni ma questo è il settore in cui in Italia la concorrenza è più spietata. Quasi il proto­tipo della società del rischio. Ma nonostan­te non esistano barriere all’ingresso e la battaglia per sopravvivere sia pane quoti­diano, il popolo dell’Iva non ha mai susci­tato le simpatie dei mercatisti più intransi­genti che l’hanno sempre considerato il re­trobottega della economia.

Terziario, il settore-rifugio

I professionisti negli ultimi quindici an­ni sono raddoppiati per numero e nelle buone intenzioni di tanti (si vedano i lavo­ri di Gian Paolo Prandstraller e Carlo Car­boni) avrebbero dovuto rappresentare la spina dorsale della modernizzazione italia­na. Il terziario italiano, però, dopo gli anni Ottanta segnati comunque da innovazio­ne e mobilità sociale, non ha fatto il salto di qualità e anzi ha accumulato ritardi su ritardi. Le multinazionali hanno potuto tranquillamente fare shopping scegliendo fior da fiore mentre il grosso delle aziende italiane ha finito per vegetare e il terziario ha preso i contorni del settore-rifugio con costi alti, competitività incerta e occupa­zione precaria. Con la crisi ovviamente a pagare per prime sono le fasce più deboli delle professioni, quelli che si autodefini­scono gli avvocati (e architetti, commer­cialisti, etc...) «senza clienti». Sono legali che lavorano in grandi o medi studi pro­fessionali, hanno un solo committente ma non lo status di dipendenti. Semplici prestatori d’opera iscritti all’Ordine, lavo­ratori autonomi con partita Iva. In media un grande studio ospita tra 20 e 30 legali e ciascuno di loro emette a fine mese una fattura che può variare dai 1.500 ai 4 mila euro lordi. Il numero dei soli avvocati senza clienti è stimato tra le 25 e le 30 mila unità. Quando uno studio è in difficoltà per mancanza di clienti si ri­struttura, e gli avvocati Invisibili finisco­no per strada. Qualcuno riesce ad accasarsi, gli altri lasciano la professione o si met­tono in proprio. Ma affittare, anche solo una stanza da un collega che ha già un uffi­cio, costa almeno 500 euro al mese ai qua­li vanno aggiunti telefono, Internet e se­greteria. Così finisce che molti dei legali rimasti senza posto apra lo studio in casa ma quando deve vedere un cliente lo rice­ve, per orgoglio, in Tribunale.

I professionisti senza Ordini

Non va meglio ai professionisti senza Ordini. Informatici, consulenti, pubblicita­ri, ricercatori designer. Un popolo di 300 mila persone che nei paesi anglosassoni vengono indicati come «knowledge workers», lavoratori della conoscenza e che hanno Milano come loro quartier ge­nerale e per almeno un terzo sono donne. Se vanta una buona rete di relazioni e tan­te amicizie - il passaparola è decisivo, co­me per gli idraulici - un consulente riesce a lavorare 180 giorni l’anno, ma la media è molto più bassa tra i 100 e i 120. Le azien­de pagano con mesi di ritardo e qualche volta fanno addirittura flanella, così in qualche settore - le traduzioni - gira addi­rittura una black list delle compagnie mo­rose dalle quali l’Invisibile farà bene tener­si alla larga. Chi, come loro, vive totalmen­te di buona reputazione e non ha rendite di posizione, non può permettersi di rima­nere indietro rispetto alle tendenze di mer­cato, quindi deve aggiornarsi totalmente a sue spese investendo a sua volta in for­mazione e stage. Ma i problemi più gravi si manifestano con il welfare, o forse è più giusto dire con il no-welfare. I profes­sionisti versano per la pensione alla ge­stione separata dell’Inps il 26% dei loro in­troiti e si vedono restituito molto meno. Esiste una casistica da choc segnalata dal­le associazioni come Acta: lavoratori con 30 anni di contributi hanno calcolato il lo­ro prossimo assegno mensile e hanno sa­puto che «godranno» di una pensione mensile tra i 500 e i 650 euro. Relativamen­te più tutelata è la maternità: alla neo-mamma vengono riconosciuti cin­que mesi di paga ma deve tagliare di netto tutti i rapporti e le consulenze aperte. E co­sì quando vorrà rientrare in gioco dovrà comunque ripartire da zero.

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