In questi mesi ho partecipato a numerose assemblee di piccoli imprenditori e artigiani che vogliono continuare a tenere aperte le aziende. Nei cinema parrocchiali di Jerago, nei capannoni industriali di Busto Arsizio, nei teatri comunali di Besnate, in una ex cascina di Moretta a cavallo tra le province di Torino e Cuneo e poi a Varese, nelle associazioni industriali del Nord est, nei distretti del made in Italy.
Ad organizzare queste forme di protesta e di mobilitazione sono le sigle più impensate: dagli artigiani «ribelli» del Varesotto, ai Contadini del tessile, da «Imprese che resistono » alle organizzazioni di rappresentanza come Confartigianato e Cna. E per la prima volta nella storia politico-sindacale d'Italia ci sono stati due cortei di imprenditori, a Torino in luglio e a Firenze proprio ieri. Assieme alla partecipazione alle assemblee in questi mesi il «Corriere» ha raccolto anche le testimonianze di realtà ancor meno aggregate, come i professionisti e i titolari di partita Iva. Due mondi che faticano persino a trasmettere all’opinione pubblica le proprie istanze. Anche per loro la crisi si è rivelata un calvario, il giro di affari delle ditte individuali si è pericolosamente contratto, gli studi professionali hanno cominciato a lasciare a casa i propri collaboratori, il terziario italiano si è rivelato un’infrastruttura troppo fragile per coltivare progetti di sviluppo. Piccoli imprenditori, artigiani, professionisti e partite Iva ci sono sembrati i moderni Invisibili. Per loro non ci sono lobby e riflettori accesi, quando i cancelli di una piccola impresa chiudono non si vedono sindaci con fascia tricolore, bandiere o megafoni così come quando un giovane avvocato da un giorno all’altro finisce per strada la solitudine si tocca con mano. Nel Paese della concertazione oggi soffriamo di un clamoroso deficit di rappresentanza. La politica resta sullo sfondo tutta presa da suoi riti autoreferenziali, la grande impresa non è più capace di distribuire chance di sviluppo, le banche appaiono delle roccaforti inespugnabili e sorde. Tra tante delusioni ciò che è restato vivo è il legame tra il piccolo imprenditore e i suoi dipendenti, un rapporto che anzi è uscito rafforzato. Le comunità non si sono spezzate a dimostrazione della solidità dei valori sui quali si è basata la crescita delle piccole imprese e dei distretti made in Italy.
Il movimento dei Piccoli un primo risultato importante lo ha avuto: ha rotto la spirale della solitudine e ha incoraggiato molti artigiani a tener duro. Si temeva che la chiusura per le ferie estive equivalesse a un’ecatombe di aziendine, fortunatamente non è andata così. Ma la situazione resta in bilico, più sarà lunga l'uscita dalla crisi più il rischio di deindustrializzazione sarà concreto. In base agli ultimi dati disponibili sulle esportazioni ci sono infatti solo 11 distretti italiani su un campione di 104 che sono riusciti a non perdere ordini o addirittura a incrementarli. Persino Sassuolo, capitale della ceramica, che per tempo aveva fatto a suo modo i conti con la concorrenza cinese sui prezzi, farà segnare a fine anno -25% di ricavi. Ma si segnalano situazioni molto difficili in diversi territori: La pelletteria fiorentina, le sedie di Manzano, le macchine per la concia di Vigevano, il meccanotessile di Biella, la meccanica strumentale di Vicenza hanno fatto segnare in base agli ultimi dati disponibili le più forti contrazioni nell’export. A Como non solo sono crollati i ricavi delle aziende della seta ma si rischia un effetto Prato per la crescita di laboratori clandestini gestiti da cinesi che si sono via via sostituiti agli artigiani locali. Anche nel Varesotto, nella zona di Jerago e Gallarate, la meccanica che lavora per conto terzi è in grave sofferenza. In tutti questi casi quello che si va palesando è un eccesso di capacità produttiva. Per questo motivo la parola d’ordine che comincia a circolare (con fatica) è quella dell’aggregazione. Ci sono prime esperienze costruite dal basso, come a Tradate in provincia di Varese, che puntano a ricostruire la filiera produttiva e a presentare le piccole direttamente sul mercato con un loro prodotto finito. Sarà importante vedere che dinamiche si metteranno in moto nel Nord Est dove la tradizione individualistica è ancora più radicata che altrove e le resistenze a mettersi assieme con un concorrente sono forti.
Il boom delle partite Iva
I dati dell’Unioncamere ci dicono che il numero delle ditte individuali è in aumento anche negli ultimi mesi. È vero che il lavoro autonomo continua ad attrarre gli italiani che non amano né l’impiego pubblico né indossare la tuta blu, ma in tempo di crisi la partita Iva sta diventando lo strumento più snello per restare comunque agganciati al mercato del lavoro. Comincia a verificarsi sempre più spesso che chi perde il posto fisso la apre. Casi di questo tipo sono segnalati soprattutto nell’area milanese alla Mivar o alla Nokia-Siemens, ma potrebbero diventare prassi comune nel momento in cui la cassa integrazione non riuscisse più a coprire i dipendenti delle aziende in crisi. Le poche indagini che riguardano questo mondo ci dicono che una partita Iva lavora in media 7 ore di più la settimana di un lavoratore dipendente e che quando va a carte quarantotto spesso non accade per imperizia personale ma perché fallisce un loro committente a monte. È chiaro che gli 8,8 milioni di partite Iva, tolti i due milioni di inattive o che comunque sfuggono ai rilievi del fisco, finiscono per farsi una concorrenza bestiale. Si è parlato tanto di liberalizzazioni ma questo è il settore in cui in Italia la concorrenza è più spietata. Quasi il prototipo della società del rischio. Ma nonostante non esistano barriere all’ingresso e la battaglia per sopravvivere sia pane quotidiano, il popolo dell’Iva non ha mai suscitato le simpatie dei mercatisti più intransigenti che l’hanno sempre considerato il retrobottega della economia.
Terziario, il settore-rifugio
I professionisti negli ultimi quindici anni sono raddoppiati per numero e nelle buone intenzioni di tanti (si vedano i lavori di Gian Paolo Prandstraller e Carlo Carboni) avrebbero dovuto rappresentare la spina dorsale della modernizzazione italiana. Il terziario italiano, però, dopo gli anni Ottanta segnati comunque da innovazione e mobilità sociale, non ha fatto il salto di qualità e anzi ha accumulato ritardi su ritardi. Le multinazionali hanno potuto tranquillamente fare shopping scegliendo fior da fiore mentre il grosso delle aziende italiane ha finito per vegetare e il terziario ha preso i contorni del settore-rifugio con costi alti, competitività incerta e occupazione precaria. Con la crisi ovviamente a pagare per prime sono le fasce più deboli delle professioni, quelli che si autodefiniscono gli avvocati (e architetti, commercialisti, etc...) «senza clienti». Sono legali che lavorano in grandi o medi studi professionali, hanno un solo committente ma non lo status di dipendenti. Semplici prestatori d’opera iscritti all’Ordine, lavoratori autonomi con partita Iva. In media un grande studio ospita tra 20 e 30 legali e ciascuno di loro emette a fine mese una fattura che può variare dai 1.500 ai 4 mila euro lordi. Il numero dei soli avvocati senza clienti è stimato tra le 25 e le 30 mila unità. Quando uno studio è in difficoltà per mancanza di clienti si ristruttura, e gli avvocati Invisibili finiscono per strada. Qualcuno riesce ad accasarsi, gli altri lasciano la professione o si mettono in proprio. Ma affittare, anche solo una stanza da un collega che ha già un ufficio, costa almeno 500 euro al mese ai quali vanno aggiunti telefono, Internet e segreteria. Così finisce che molti dei legali rimasti senza posto apra lo studio in casa ma quando deve vedere un cliente lo riceve, per orgoglio, in Tribunale.
I professionisti senza Ordini
Non va meglio ai professionisti senza Ordini. Informatici, consulenti, pubblicitari, ricercatori designer. Un popolo di 300 mila persone che nei paesi anglosassoni vengono indicati come «knowledge workers», lavoratori della conoscenza e che hanno Milano come loro quartier generale e per almeno un terzo sono donne. Se vanta una buona rete di relazioni e tante amicizie - il passaparola è decisivo, come per gli idraulici - un consulente riesce a lavorare 180 giorni l’anno, ma la media è molto più bassa tra i 100 e i 120. Le aziende pagano con mesi di ritardo e qualche volta fanno addirittura flanella, così in qualche settore - le traduzioni - gira addirittura una black list delle compagnie morose dalle quali l’Invisibile farà bene tenersi alla larga. Chi, come loro, vive totalmente di buona reputazione e non ha rendite di posizione, non può permettersi di rimanere indietro rispetto alle tendenze di mercato, quindi deve aggiornarsi totalmente a sue spese investendo a sua volta in formazione e stage. Ma i problemi più gravi si manifestano con il welfare, o forse è più giusto dire con il no-welfare. I professionisti versano per la pensione alla gestione separata dell’Inps il 26% dei loro introiti e si vedono restituito molto meno. Esiste una casistica da choc segnalata dalle associazioni come Acta: lavoratori con 30 anni di contributi hanno calcolato il loro prossimo assegno mensile e hanno saputo che «godranno» di una pensione mensile tra i 500 e i 650 euro. Relativamente più tutelata è la maternità: alla neo-mamma vengono riconosciuti cinque mesi di paga ma deve tagliare di netto tutti i rapporti e le consulenze aperte. E così quando vorrà rientrare in gioco dovrà comunque ripartire da zero.
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