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7 gen 2008

I diseredati (per amore)

Chi esclude i figli dall'eredità «perché è pedagogico» e chi lo fa per salvare il gruppo Dalle sorelle Hilton a Barbara Bertone

Nicky Hilton
MILANO — C'è chi lo fa (pare) a scopo pedagogico. Chi, invece, si fa guidare dall'istinto di vendetta. Chi, ancora, di fronte al capitale mette da parte gli affetti per concentrarsi su un unico obiettivo: la salvezza dell'azienda. In ogni caso, il risultato non cambia. Almeno, non per figli e nipoti. Che sempre più spesso, negli ultimi tempi, si trovano a passare notti non proprio tranquille, in preda al terrore di passare in un lampo dallo status di ereditieri a quello di diseredati.

È successo, ed è cronaca degli ultimi dieci giorni, alla bionda più paparazzata degli Stati Uniti: Paris Hilton, 26 anni, ha appreso da una mail inviata a Fortune dal nonno Barron che il 97% del patrimonio di famiglia se ne andrà in beneficenza. A lei e alla sorellina Nicky, ree di avere «infangato» il buon nome degli Hilton, resterà solo il 3% (di 2,3 miliardi di dollari...). È successo pure, ed è cronaca dell'altroieri, a Barbara Bertone, 39 anni, figlia di Nuccio — scomparso nel 1997 — e Lilli, cui la madre ha revocato «tutti i poteri di direttore generale della Carrozzeria Bertone», per «un'ormai intollerabile situazione di conflitto di interessi» sul destino dell'azienda.

E ancora, solo pochi mesi fa, l'84enne Sumner Redstone, signore e padrone di Viacom e Cbs, aveva cacciato fuori dal gruppo la figlia Shari (sorte analoga era già toccata a figlio, fratello e nipote), delegando al board la delicata questione della successione. Mentre in agosto, all'apertura del testamento della miliardaria Leona Helmsley, due nipoti su 4 sono rimasti a becco asciutto: «Loro sanno perché», ha lasciato scritto la terribile nonna. Eredità (in soldi o incarichi) addio, dunque, su entrambe le sponde dell'Atlantico. La linea, per la verità, era stata dettata già da tempo: correva l'anno 1998, quando tra i tycoon Usa si diffuse il primo germe della rivoluzione. Il primo fu Warren Buffett, il re degli investimenti. La sua teoria: «Lasciare enormi quantità di denaro ai figli è sbagliato. I patrimoni dinastici fanno male al sistema». Promessa mantenuta nel 2006, quando Buffett ha donato l'85% dei suoi averi a 5 associazioni filantropiche, tra cui la Bill & Melinda Gates Foundation. Guarda caso, altri due adepti della linea «tesoro, ti diseredo ma lo faccio per te»; ai tre figli andranno «solo» 10 milioni a testa, «Non voglio lasciar loro molto perché penso che non gli farebbe bene», disse a suo tempo Mr Microsoft.

«Ma nel nostro Paese la prassi è poco diffusa, così come l'idea che la ricchezza impatti negativamente sulla crescita dei figli», commenta Guido Corbetta, che in Bocconi insegna Strategia delle imprese familiari. Senza contare che nessun industriale italiano potrebbe seriamente minacciare i propri figli di lasciarli sul lastrico, «con la legittima gran parte del patrimonio è vincolata... Quello che fanno alcuni imprenditori, se ritengono gli eredi non adatti, è di vendere l'azienda e lasciare la liquidità. Un caso famoso è quello di Grimaldi (Aldo, l'armatore di Grandi Navi Veloci, ndr), che ha deciso di vendere a un fondo di private equity ». Anche di Bernardo Caprotti, fondatore di Esselunga, 82 anni e tre figli, si mormora da tempo voglia vendere, «ma ancora non si è capito...». La differenza con gli Usa si vede anche dai numeri: «I Pritzker, proprietari degli Hyatt, hanno deciso di vendere dopo che i piani di successione sono falliti. Un patrimonio da 10 miliardi di dollari». Anche per i rampolli nostrani, però, potrebbero arrivare i tempi grami: «In Italia — chiude Corbetta — è in corso una riflessione, in parte già arrivata in Parlamento, per ridurre le percentuali della legittima, portando a una quota disponibile più elevata. Siamo di fronte a un mutamento storico, l'azienda vista non più come "roba di famiglia", ma come una creatura da tutelare ». E il cognome, a questo punto, potrebbe non bastare più.

Gabriela Jacomella
corriere

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