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5 dic 2010

Wikileaks, attesi nuovi documenti

Continua la pioggia di rivelazioni targate Wikileaks - diffuse dai media partner - che mette in guardia dal pericolo di un’era di «maccartismo digitale», mentre cresce l’attesa per nuovi «clamorosi» documenti che potrebbero spuntare fuori già nelle prossime ore. Il cerchio attorno a Julian Assange e al suo staff è sempre più stretto: il gruppo si troverebbe a Londra, sparpagliato in diversi appartamenti. Da 24 ore praticamente nessuno riesce a contattare i responsabili del sito, e se non ci fossero le video-conferenze e video-chat di Assange e i twit sempre più rari, si potrebbe parlare di vero e proprio black-out informativo.


In un comunicato dell’ultim’ora pubblicato da Wikileaks, Assange mette in guardia dall’avvento di un nuovo oscurantismo, dopo gli attacchi informatici al sito, la cancellazione del dominio da parte di un provider americano, la rescissione del contratto per i server deciso da Amazon e lo stop alle donazioni online via PayPAl, che l’australiano bolla come «pericolosi passi verso un’era di maccartismo digitale». «Queste azioni, e altre come questa, non sono il risultato di azioni legali, ma della paura di perdere il favore degli Usa», afferma l’australiano nella nota, nella quale si sottolinea che l’organizzazione è «interamente» finanziata dalle donazioni pubbliche, e che quindi la decisione di PayPal è «seria», perché la maggior parte dei soldi versati a Wikileaks arrivano attraverso questa forma di pagamento online.

Intanto, i telefoni squillano a vuoto, i giornalisti si scambiano contatti frenetici per sapere se effettivamente l’australiano intenda tirare qualche «clamorosa bomba» nelle prossime ore, forse anche sull’Italia. Grava sul capo di Assange un mandato internazionale che potrebbe essere eseguito in qualsiasi momento, evento che potrebbe di per sé far «scattare in automatico» la consegna della chiave di accesso al `file di assicurazione´ che contiene tutti i 251.000 della diplomazia Usa.

La pubblicazione dei file sui domini di Wikileaks è però sostanzialmente ferma, e sono i media partner (New York Times, Guardian, Le Monde, El Pais e Spiegel) a scandire la quotidiana infornata di nuovi scoop e rivelazioni sulla politica internazionale mondiale. Ferma, a quanto si apprende, anche l’operazione per coinvolgere altri media, oltre ai cinque partner, nella pubblicazione «focalizzata geograficamente» su alcuni Paesi.

Lo stop alle donazioni tramite Paypal è effettivamente un duro colpo per Wikileaks, che stimava di raccogliere milioni di dollari grazie al sostegno dei «fan» (oltre 600.000 quelli iscritti nel gruppo dedicato al sito di Assange su Facebook). Gli attacchi informatici di tipo DDos (blocco dell’accesso) costringono i responsabili del sito a utilizzare risorse per sfuggire agli assalti, con una strategia difensiva dispendiosa che è tuttavia l’unica possibile per fronteggiare minacce così estese. Così, sono i media partner a dettare la linea, pubblicando file in pacchetti quotidiani secondo una tempistica forse concordata in anticipo con Assange.

È stato dunque il Guardian a tirar fuori una inquietante vicenda che coinvolge il leader libico Gheddafi: lo scorso anno, per ripicca contro l’Onu che non gli aveva concesso di piazzare la sua tenda a New York, il colonnello diede ordine di lasciare oltre 5 kg di uranio altamente arricchito in balia di «potenziali ladri e terroristi» nei pressi della centrale nucleare libica che si trova a 14 km da Tripoli. Solo dopo 20 giorni di angoscia Washington e Mosca riuscirono a scongiurare un incidente nucleare con effetti devastanti su tutto l’arco del Mediterraneo. Altrettanto imbarazzante per Washington e Sanaa il dossier Yemen, rivelato dal New York Times: il territorio dello Yemen è un «regno» per le operazioni antiterrorismo condotte in modo unilaterale dagli Stati Uniti. «Noi - spiega in un cable il presidente yemenita Ali Abdullah Saleh - continuiamo a dire che le bombe sono nostre, non vostre».

Dulcis in fundo: nuove rivelazioni confermano che già dal 2002 nel mondo si combatte una vera e propria guerra informatica a colpi di hacker assunti e schierati da eserciti contrapposti, con Pechino e Teheran in prima fila, l’India che arranca per le «discussioni interne al governo» e gli Stati Uniti pronti a rafforzare le proprie agenzie. Centinaia gli attacchi registrati dal 2002 ad oggi, contro i sistemi informatici di organizzazioni governative e impianti militari, negli Usa come in Germania, a Seul come a Londra. Decine gli hacker assunti a tempo pieno, tra i quali il temibile cinese Lin Yong, Lion: la sua specialità, inutile dirlo, i `DDos attack´.

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