Il ministro Gelmini: con quel diploma si fatica a trovare un lavoro
Mariastella Gelmini (Eidon) |
Con la riforma degli ordinamenti didattici del'99, accanto alla classica laurea a ciclo unico (quadriennale o quinquennale) sono stati introdotti la laurea triennale, detta Laurea (L) e la Laurea Specialistica o Magistrale, altri due anni di specializzazione (LS) e il sistema dei Crediti Formativi Universitari (CFU). Le lauree triennali, pensate per un inserimento più rapido nel modo del lavoro, sarebbero dovute aumentare. Sono passati dieci anni ma non si vede ancora il risultato sperato.
Il ministro non si sbilancia. Tuttavia il numero degli universitari che invece di fermarsi alla laurea triennale ha proseguito verso la specialistica è risultato molto più alto anche rispetto alle più pessimistiche previsioni. Negli altri paesi europei il 70 per cento dei laureati dopo 2 o 3 anni entra nel mondo del lavoro. A proseguire è solo il 30 per cento. Nel nostro Paese, anche se sui numeri e la loro interpretazione non c'è accordo — 10 anni forse sono pochi per trarre delle conclusioni—nessuno può negare che la tendenza sia esattamente contraria.
«Il "3+2" ha oggettivamente fatto moltiplicare i corsi di laurea, tuttavia si è appena concluso l'adeguamento ai nuovi ordinamenti e ora rifarli daccapo sarebbe traumatico — dice il senatore Giuseppe Valditara, relatore della Riforma universitaria in discussione al Senato —. Ci potrà essere nel tempo una graduale modifica del "3+2", soprattutto in quelle discipline che lo rivendicheranno. Giurisprudenza a suo tempo ha chiesto di avere un percorso unitario. Evidentemente in prospettiva si potranno studiare per le facoltà che lo richiedono forme più flessibili rispetto al modello attuale. L'unica cosa impensabile è un decreto del ministero che costringa le università a ricominciare tutto daccapo. Sarebbe il caos».
«La responsabilità — ribadisce il professor Guido Fiegna, membro del Cnvsu (Comitato nazionale valutazione sistema universitario) — è in parte attribuibile alle università che non hanno ridisegnato i corsi, cambiando la sequenza delle discipline, i tempi e i modi di insegnamento. In un certo senso gli atenei non sono riusciti o non hanno voluto incentivare l'uscita dal sistema universitario dei laureati triennali».
Tra le spiegazioni, non mancano quelle più maliziose: in certe aree disciplinari l'ingresso nel modo del lavoro di un consistente numero di laureati triennali avrebbe potuto provocare un eccesso di docenti. Ma esiste anche una diretta responsabilità di chi controlla la domanda di laureati. «Purtroppo — conclude Valditara —ci sono stati pochi sbocchi, soprattutto nella Pubblica amministrazione. Perché quasi tutti gli studenti concludono il quinquennio invece di defluire dal sistema universitario dopo 3 anni? In realtà proprio a partire dalla Pubblica amministrazione gli sbocchi concreti, è un dato di fatto, sono pochi. Bisognerebbe cominciare a lavorare proprio da lì per assicurare delle opportunità ai laureati triennali ».
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