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8 mar 2010
Elezioni Iraq: grande affluenza e paura
ffluenza altissima, anche i sunniti alle urne dopo l'astensione di massa di 5 anni fa
A proteggere le operazioni c'è l'esercito nazionale, americani assenti
l'Iraq in massa alle urne
le elezioni sono un successo
BAGDAD - La chiamo la "battaglia della democrazia" e credo proprio di avere ragione. Non si possono definire altrimenti gli avvenimenti, a tratti micidiali ma in complesso esemplari, a volte persino esaltanti, che hanno ritmato le elezioni di ieri. Un voto espresso sette anni dopo l'invasione americana. E questa volta sotto la protezione dell'esercito nazionale, con gli americani assenti dalle città e relegati tra le quinte della provincia.
La cronaca segue, ma il risultato merita la precedenza. La democrazia ha ampiamente vinto nonostante lo sbarramento iniziale che doveva dissuadere gli elettori dall'andare alle urne. L'affluenza è stata forte, importante, qualificante, più numerosa del previsto. Nelle zone sunnite, dove cinque anni or sono l'astensione era stata quasi totale, si sono raggiunte vette del 90 per cento di partecipazione, come a Diyala, o dell'82 per cento come a Samarra. Nell'Anbar, provincia a lungo insanguinata dalla guerriglia, i seggi sono stati affollati fino a tarda sera. L'affluenza è stata più forte che nelle zone sciite. Questo significa la fine del rifiuto sunnita, che ha alimentato l'opposizione armata. L'Iraq è diventato democratico? Certamente la volontà popolare gli ha fatto compiere un importante passo in quella direzione.
All'inizio, quando era da poco giorno, ci sono state le prime esplosioni. In verità esplosioni sorde, lontane, attutite dalle costruzioni fitte che si stendono per chilometri, sulle due sponde del Tigri. Poi una serie di schianti tipici dei mortai. E decine di razzi con le annesse sottili colonne di fumo. Tre delle quali si sono alzati dietro le alte mura in cemento armato che avvolgono la Zona Verde, il quartiere dei vip, dove abitano ministri, ambasciatori e via dicendo. Cominciavano le elezioni e debuttava un attacco terroristico in tutta regola. Le strade erano deserte, per via del coprifuoco imposto al traffico automobilistico. Passavano urlando soltanto le sirene delle autoambulanze e della polizia. Dalle abitazioni non spuntava neppure l'ombra di un elettore deciso a raggiungere a piedi, come voleva la regola, il vicino seggio presidiato dai militari.
L'attacco concertato stava dunque per avere successo? L'obiettivo di "quelli di Al Qaeda", come sono genericamente definiti gli oppositori armati, era di dissuadere i diciannove milioni di iracheni chiamati alle urne dall'uscire di casa. Era quello di intimidire in particolare la minoranza sunnita. La quale, nel 2005, alle prime elezioni legislative, frustrata dal perduto potere, aveva rifiutato in massa di andare a votare, anche in segno di solidarietà con l'insurrezione armata contro la neo-Repubblica dominata dalla maggioranza sciita, sostenuta dagli americani. Ma passati cinque anni, e con l'insurrezione armata ormai spenta, ieri mattina i sunniti sembravano infine decisi a stare al gioco della democrazia. Bisognava dissuaderli. E "quelli di Al Qaeda", forse non tutti stranieri come dice la propaganda governativa, comunque i resti dell'opposizione armata, ci hanno provato. Il costo umano, in quelle prime ore ritmate dalle esplosioni, è stato di una quarantina di morti e di un centinaio di feriti.
La "battaglia della democrazia" ha subito una svolta quando il sole era ormai abbastanza alto sulla pianura tra il Tigri e l'Eufrate. Appena si sono diradate le esplosioni si sono formate colonne in direzione dei seggi elettorali. Uomini e donne sono usciti di casa. Hanno sfidato i terroristi. Hanno respinto l'offensiva intimidatoria. La scena non lasciava indifferenti. A Karrada, un quartiere centrale di Bagdad, donne col chador o con il semplice foulard, spesso cariche di bambini, dicevano che i razzi e i colpi di mortaio li sparavano gli "stranieri" e che il modo migliore per disperderli era di andare a votare.
Non erano dichiarazioni generiche, benché pronunciate nell'emozione. La campagna elettorale è stata rissosa, ritmata dalle violenze, invelenita dalle tradizionali rivalità di clan, ma meno dominata dallo scontro etnico (dico etnico, perché l'urto tra sunniti e sciiti ha assunto di rado un carattere strettamente religioso). Questo si è riflesso sulla composizione dei partiti. Il primo ministro, Nuri Kamal al-Maliki, ha trasformato il suo, un tempo essenzialmente sciita, in una formazione nazionalista (Alleanza per lo stato di diritto), in cui sunniti e sciiti convivono sia pur non senza difficoltà. Il partito laico dell'ex primo ministro Ayad Allawi (Movimento nazionale iracheno), in cui sono raccolti esponenti di tutte le confessioni, e in cui non mancano ex membri del Baath di Saddam Hussein non colpevoli di delitti e ravveduti, non ebbe negli anni scorsi l'udienza conquistata negli ultimi mesi, anche tra i quadri militari e la polizia.
Questa forte spinta ecumenica, favorita dalla volontà popolare di uscire dalla guerra civile, è alle origini della straordinaria reazione di ieri all'attacco terroristico concertato di "quelli di Al Qaeda". I quali sono stati indicati dagli elettori come "stranieri", cioè estranei al nuovo spirito nazionale, meno settario, meno fanatico, che sembra animare il Paese. Un Paese esausto. Il nuovo clima non dovrebbe favorire troppo l'Alleanza nazionale, in cui si ritrovano molti sciiti ortodossi; e dovrebbe penalizzare, quando si conosceranno tra pochi giorni i risultati, i piccoli partiti religiosi. Per ora si pensa che al-Maliki e Allawi potrebbero essere i due vincitori. Uno dei due sarà dunque il primo ministro? Una loro intesa non sarà facile. Li divide un'antica tenzone, politica e personale.
Amariyat al Falluja è una zona rurale non lontano da Falluja, la città sunnita più martoriata dalla guerra. Anzi rasa al suolo dai marines, che soltanto dopo settimane di combattimenti riuscirono ad annientare quella roccaforte dell'insurrezione armata. Nella mattina di ieri i seggi elettorali erano deserti. Le frequenti esplosioni tenevano chiusa in casa la gente, ma appena c'è stata una pausa le donne velate hanno raggiunto la scuola al-Imam dove era stato installato il seggio e non hanno esitato a rivelare per chi votavano. Anzitutto per un notabile locale, ma anche per il laico Ayad Allawi, gradito anche agli elettori della stessa città di Falluja. Allawi ha recuperato nel suo partito, tra accuse e contestazioni, ex membri del partito Baath, promuovendo quella che dovrebbe essere una riconciliazione nazionale. Lui è sciita ma per questa sua iniziativa raccoglie molti consensi sunniti.
La partecipazione al gioco democratico della minoranza sunnita rinnova il paesaggio politico iracheno. E favorisce la posizione del Paese nel mondo arabo, dove sussisteva la diffidenza delle grandi capitali sunnite (da Riad al Cairo) nei confronti di un Paese dominato dagli sciiti. E poiché questi ultimi conserveranno l'essenziale del potere, neppure il vicino e solforoso Iran sciita dovrebbe preoccuparsi. In quanto agli americani non possono che rallegrarsi del risultato, a neppure sei mesi dal ritiro delle loro truppe combattenti. I cinquantamila consiglieri e tecnici che si lasceranno alle spalle, fino al dicembre 2011, correranno meno rischi. Anche se nessun conflitto segue un tracciato sicuro. E in Iraq è facile prevedere che "quelli di Al Qaeda" si faranno ancora vivi, dopo la disfatta di ieri
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