Il procuratore: «Informazioni rimosse violando la legge». La replica: «Decidiamo noi cosa svelare»
Il processo a Milano riguarda un video che mostra un disabile maltrattato
Il processo a Milano riguarda un video che mostra un disabile maltrattato
MILANO — C'è un sequestro di persona in corso, arriva una richiesta di riscatto via computer o fax o cellulare attraverso uno dei servizi di posta elettronica offerti da Google, e per risalire ai rapitori la magistratura chiede alla compagnia statunitense le informazioni relative a quel traffico telematico? Neanche in questo caso è detto che il gigante Usa assicuri collaborazione, mette nero su bianco Google Inc. in una lettera alla Procura di Milano: persino «in presenza di specifiche circostanze di emergenza che implicano un imminente pericolo di morte o di gravi lesioni fisiche», risponde infatti la vicepresidente (Nicole Wong) degli affari legali del colosso mondiale, Google Inc. si assume la responsabilità di subordinare alla «propria discrezione» la comunicazione dei dati richiesti dall'autorità giudiziaria. Dati che, in ogni caso, rivendica di non conservare per più di 30 giorni; e di cui, nel caso dell’«impronta» informatica che può abbinare un account a una persona, limita la comunicazione nei Paesi dell'Unione europea.
Il braccio di ferro tra Google e autorità giudiziarie italiane (Milano soprattutto, dove è in corso un processo ai dirigenti italiani della compagnia, imputati di diffamazione in relazione al filmato finito su «Google video» con le immagini di un ragazzo down vessato da quattro studenti torinesi) ruota da tempo sul concetto di «cittadinanza di Rete» nelle sue due possibili accezioni: no server no law (non c’è competenza giudiziaria possibile in Italia senza presenza fisica dei server sul territorio italiano) oppure no server but law (radicare la competenza non nei Paesi, magari i più disparati, dove il gestore può localizzare i server, ma nel Paese dove offre i servizi).
In primavera la Procura di Milano aveva dunque chiesto a Google Inc. di chiarire quale fossero le cosiddette «procedures and policies», insomma le linee guida legali osservate da Google in materia. La risposta è quella che ora il procuratore aggiunto della Repubblica di Milano, Corrado Carnevali, in una lettera, ha inoltrato a tutti i pm della Procura, indicandola come «non conforme al diritto italiano sotto più profili».
Uno è che Google conserva solo per 30 giorni i dati degli account@gmail, il che, scrive Carnevali, «non ha alcuna giustificazione in diritto e comporta, per la sua brevità, un evidente pregiudizio agli accertamenti informatici a fini investigativi». Solo 30 giorni invece dei 12 mesi che la normativa italiana (decreto legislativo 30 maggio 2008, n. 109 che ha attuato la direttiva comunitaria 2006/24) prevede per la conservazione dei dati attinenti al traffico telematico. E per l’autorità giudiziaria milanese, Google Inc. dovrebbe «essere soggetta alla normativa italiana, visto che rivolge i propri servizi (anche) verso cittadini italiani e comunitari».
Così come «ugualmente incomprensibile e priva di fondamento in diritto» appare alla Procura «la policy di Google che limita la comunicazione dell'Ip associato al sottoscrittore ove esso non sia relativo a un Paese dell'Unione europea, dal momento che costituisce circostanza notoria come un qualsiasi cittadino (anche italiano) possa utilizzare, nella sua azione criminosa, macchine cosiddette bucate, localizzate in Stati al di fuori dell'Unione europea: anche qui ci troviamo di fronte a un ulteriore pregiudizio per gli accertamenti informatici a fini investigativi».
Ma davvero ardita appare la dichiarazione di Google di subordinare alla «propria discrezione» la scelta se comunicare o no i dati ai magistrati anche «in presenza di specifiche circostanze di emergenza che implicano imminente pericolo di morte»: una scelta di cui il procuratore Carnevali, nella lettera, prende atto «con profondo sconforto».
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