PECHINO - I primi nove comandamenti adesso non se li ricorda più nessuno ma è sbandierando il decimo che Luo Mingxiong è diventato l'uomo più odiato dalle donne di tutta la Cina. "Regola numero dieci" ha detto il giovane manager di Jingbei Investment svelando in un seminario i segreti presunti del suo successo: "Noi non facciamo affari con le aziende che hanno alla guida manager donne". Apriti cielo: soprattutto quell'altra metà che un cinese sicuramente più famoso di Luo, tale Mao Zedong, diceva che si teneva in piedi proprio grazie alle signorine. "Non è una questione di pregiudizio" è andato avanti il ragazzone "basterebbe pensarci un po' più attentamente". Nel senso? "A parte fare i bambini: che cos'è che le donne possono fare meglio degli uomini?". Pausa da brivido. Autorisposta: "Niente".
L'uscita più politicamente scorretta del manager - almeno questo gli va riconosciuto - più candido del mondo ha ovviamente innestato un dibattito che neppure il lungo Capodanno di qui ha ancora smorzato. Anche perché in Cina, a dire il vero, di donne manager ce ne sono e tante: anzi in numero anche maggiore che altrove.
Perché è vero che è donna, apparentemente, "solo" il 2,5% degli amministratori delegati: ma il problema è globale, e se guardiamo invece nel particolare si tratta pur sempre della seconda percentuale più alta al mondo, dopo quella di Stati Uniti e Canada, ex aequo al 3,2%. I nomi, del resto, non saranno famosissimi all'estero, ma sono tutti di gente che solo per stare nel mondo della finanza conta, eccome: da Anna Fang, la chief executive officer di ZhenFund, a Chen Xiaohong, la capa di H Capital. Non solo. Se ci spostiamo dal mondo della finanza i nomi sono anche di più. Uno per tutti? Jean Liu, la ragazza che ha guidato il colosso del car sharing a sconfiggere nella madrepatria i rivali globali di Uber.
Eppure l'investitore sessista non si limita a sconsigliare di fare affari con le compagnie in cui il capo è donna: meglio rinunciare, dice, "anche se l'amministratore delegato è maschio, ma ci sono tante donne nel consiglio. Perché? Perché questa è la migliore dimostrazione che l'imprenditore non è riuscito a portarsi dietro executives maschi abbastanza ambiziosi". Non è dunque una sorpresa per nessuno che il signorino sia stato investito sul web dal più cattivo degli improperi destinati agli uomini che umiliano le donne: "Il cancro del maschio", espressione che indica appunto i comportamenti più deplorevoli innescati da troppo testosterone.
Eppure, in questo simpatico, si fa per dire, dibattito, c'è anche chi cerca di ragionare in maniera meno stereotipata. D'accordo, dice alla rivista online TechInAsia un'altra manager di un'azienda d'investimento, Rui Ma, il sessismo esiste anche tra noi imprenditori e imprenditrici, non c'è dubbio: ma in questo caso più che il maschilismo a giocare un ruolo determinante è la stessa concezione, soprattutto qui in Cina, dell'attività di investimento finanziario come "spregiudicata, rapida, aggressiva: qualità
che da noi sono viste come decisamente maschili". Il problema, insomma, sarebbe di cultura, anche imprenditoriale, prima ancora che di sesso. Vuoi vedere che sotto sotto - ma proprio sotto sotto sotto - un pizzico di ragione ce l'avrà pure quel misogino di un Mingxiong?
L'uscita più politicamente scorretta del manager - almeno questo gli va riconosciuto - più candido del mondo ha ovviamente innestato un dibattito che neppure il lungo Capodanno di qui ha ancora smorzato. Anche perché in Cina, a dire il vero, di donne manager ce ne sono e tante: anzi in numero anche maggiore che altrove.
Perché è vero che è donna, apparentemente, "solo" il 2,5% degli amministratori delegati: ma il problema è globale, e se guardiamo invece nel particolare si tratta pur sempre della seconda percentuale più alta al mondo, dopo quella di Stati Uniti e Canada, ex aequo al 3,2%. I nomi, del resto, non saranno famosissimi all'estero, ma sono tutti di gente che solo per stare nel mondo della finanza conta, eccome: da Anna Fang, la chief executive officer di ZhenFund, a Chen Xiaohong, la capa di H Capital. Non solo. Se ci spostiamo dal mondo della finanza i nomi sono anche di più. Uno per tutti? Jean Liu, la ragazza che ha guidato il colosso del car sharing a sconfiggere nella madrepatria i rivali globali di Uber.
Eppure l'investitore sessista non si limita a sconsigliare di fare affari con le compagnie in cui il capo è donna: meglio rinunciare, dice, "anche se l'amministratore delegato è maschio, ma ci sono tante donne nel consiglio. Perché? Perché questa è la migliore dimostrazione che l'imprenditore non è riuscito a portarsi dietro executives maschi abbastanza ambiziosi". Non è dunque una sorpresa per nessuno che il signorino sia stato investito sul web dal più cattivo degli improperi destinati agli uomini che umiliano le donne: "Il cancro del maschio", espressione che indica appunto i comportamenti più deplorevoli innescati da troppo testosterone.
Eppure, in questo simpatico, si fa per dire, dibattito, c'è anche chi cerca di ragionare in maniera meno stereotipata. D'accordo, dice alla rivista online TechInAsia un'altra manager di un'azienda d'investimento, Rui Ma, il sessismo esiste anche tra noi imprenditori e imprenditrici, non c'è dubbio: ma in questo caso più che il maschilismo a giocare un ruolo determinante è la stessa concezione, soprattutto qui in Cina, dell'attività di investimento finanziario come "spregiudicata, rapida, aggressiva: qualità
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