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6 nov 2010

Figli della bambagia I genitori li seguono ovunque Ma esiste un rischio nel «rischio zero»?

Figli. Amati, adorati, vezzeggiati. Soprattutto: accompagnati. A scuola, alle feste, al campo di calcetto, a danza. Ovunque. I genitori li seguono come ombre. Papà e mamme fanno i salti mortali per evitare ai loro ragazzi due passi da soli per la città, la misura della vita. Un'esagerazione? Facciamo male a trasformarci in autisti al servizio della prole? In guardie del corpo pronte a sventare il minimo pericolo? Fulvio Scaparro trattiene il sorriso. «Allevare i figli nella bambagia non è cosa recente - spiega lo psicoterapeuta -. Ed è in parte un risultato del benessere diffuso nel dopoguerra. Diminuita la necessità, e per necessità intendo di procacciare cibo, denaro per la sopravvivenza, si sta a casa con i genitori che a loro volta non spingono per una precoce autonomia».

Un fenomeno tipicamente italiano? Insomma, un'esperienza limitata ai nostri «bamboccioni»? Non pare se il quotidiano britannico Guardian, in un'inchiesta sui cotton-wool kids, i ragazzi della bambagia, si è sentito in dovere di raccontare l'esperienza di Oliver e Gillian Schonrock, una coppia londinese messa all'indice perché permetteva ai figli di 8 e 5 anni di andare a scuola, da soli, in bicicletta. «Io non lo farei mai e poi mai», chiarisce Antonella Gavaudan, avvocato, 55 anni: vive a Bologna ed è una mamma separata con figlio unico, Luca, di 13 anni. «Il padre, anche se non vive con noi, è molto presente», sottolinea, ammettendo peraltro che suo figlio va a scuola senza essere accompagnato da quando aveva 11 anni «perché è molto vicina. Nei confronti di Luca ho sempre agito per prevenire qualsiasi possibilità di rischio, dalle semplici cadute (non si è mai fatto male quando era con me, lo guardavo in continuazione) alle possibili frustrazioni. Gli ho sempre organizzato la giornata, dagli incontri con gli amici alle feste. Poi ho capito che non facevo il suo bene ed ho cambiato atteggiamento, altrimenti avrei potuto trovarmi ad affrontare un adolescente cui tutto è dovuto e che per reazione, invece che aprirsi verso gli altri, avrebbe potuto isolarsi».

È un fatto, per Fulvio Scaparro, che «le adolescenze siano sempre più di frequente prolungate fino all'inverosimile, che noi genitori solleviamo i nostri ragazzi dalla necessità di misurarsi con le difficoltà della vita. Ma, in tutto questo, c'è sempre una parte di ambivalenza, perché è la natura stessa a chiedere agli adolescenti di cercare il rischio. Dunque, molte volte i figli vivono male la duplicità dei messaggi: quelli dei genitori che chiedono loro di non fare imprudenze, quello dell'istinto che li spinge a rischiare. Un tira e molla che produce disagio». Certo, l'evoluzione della società non aiuta: spesso entrambi i genitori lavorano e hanno davvero grosse difficoltà a seguire i figli, cosa che aumenta l'ansia e la necessità di controllarli in ogni momento: per esempio con il cellulare, ormai distribuito anche ai più piccoli. E poi le città: vere e proprie giungle colme di pericoli. O no? «Beh, questa è l'idea - conferma Scaparro -. La città è il luogo dei cattivi incontri, dei poco di buono e dei pedofili. Ma non c'è mai stata un'età dell'oro, bei tempi passati dove tutti erano buoni. Solo l'ansia è più diffusa, come la tecnologia, vero cordone ombelicale che non viene mai reciso. Ma chiedete ai vostri nonni se si ricordano quando veniva loro detto: "Attenti quando uscite di casa, non parlate con gli sconosciuti". Il mondo non era un Paradiso terrestre, nemmeno allora».

Settimio Di Segni, 46 anni, commerciante milanese, e sua moglie Ronit, 39, hanno quattro figli: Micol (14), Daniel (12), David (10) e Elia (5). Ricordano bene gli anni della propria infanzia, soprattutto Ronit: «Io - scandisce con un tono che ha dell'incredulo - a 8-9 anni giravo per la città con mio fratello, soli in autobus: ai miei figli questo non lo permetto». Ronit è una di quelle mamme che fanno i salti mortali pur di accompagnare i figli dagli amici o ai vari corsi dopo la scuola: «La mattina lavoro con mio marito, ma dal pomeriggio in poi mi dedico ai ragazzi». Nemmeno la più grande, Micol, ha la libertà d'azione che aveva la madre alla stessa età: «La vado a prendere persino ai corsi di danza: sette minuti da casa. Mi rendo conto che io sono cresciuta più selvatica e più scaltra. Ma non so che farci». La sincerità di mamma Ronit: «Entro in ansia se non so dove sono i miei figli. Sono esagerata? Non credo: il mondo è cambiato e parecchio». Che dice il papà? «Io rientro solo la sera. Ma sono in genere meno apprensivo. Tuttavia, condivido appieno l'impostazione di mia moglie». Ronit conclude: «So che i nostri figli sono meno autonomi di quanto eravamo noi. Ma non ho voglia di fare esperimenti su di loro. Il nostro compito è proteggerli: se potessi, li rimetterei dentro la mia pancia...».

Una famiglia in controtendenza: Andrea Carrara, 48 anni, ingegnere civile, ed Elena, 46, titolare di un'agenzia di viaggi, hanno una bimba, Ilaria, di 6 anni. «Non siamo genitori ansiosi - dicono di comune accordo -. Siamo attenti ma non apprensivi». Certo, la figlia non va a scuola da sola, per quanto vicina (100 metri da casa): «Ci andrà, magari in terza elementare», dice il papà; la mamma ribatte: «A me fa piacere portarla, io aspetterei comunque fino alla prima media: non per lei, ma per quello che c'è in giro». Ilaria va alla Montessori: «Un ambiente che offre sin dal principio un'impostazione di autonomia - spiegano Andrea ed Elena -. Ilaria va già dalle amiche anche per qualche giorno: si distacca senza grosse angosce». La conclusione a Scaparro: «Dobbiamo imparare, noi genitori, a trasmettere fiducia ai figli. E a lasciare che prendano piano piano la loro strada».

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