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15 ott 2010

Lou Jiwei: questo, se vuole, compra mezza Italia

Attenzione: questo, se vuole, compra mezza Italia
Viaggio nell'impero finanziario di Lou Jiwei.

Fantaeconomia? Il Valore non è in grado, per ora, se confermare o meno questo rumour. Il mistero delle reali intenzioni di Lou Jiwei è ancora fitto. Tuttavia se l'Italia entrasse davvero nel mirino del miliardario asiatico, l'equilibrio del nostro sistema economico ne uscirebbe sconvolto. Un personaggio del genere merita dunque di essere conosciuto.

I cinesi si sono presi un'altra fetta di una finanziaria Morgan Stanley, di gran prestigio, anche se la sua . Questo tycoon asiatico, Lou Jiwei, era balzato agli onori della cronaca dopo aver soccorso Blackstone (e averci rimesso un bel po' di soldi). Ora il suo fondo "sovrano" Cic, China investment corporation, raccoglie la chiamata d'aiuto lanciata dalla Morgan, abbattuta da perdite trimestrali per una cifra da capogiro: 3,56 miliardi di dollari. In chiusura riprenderemo questo capitolo e vedremo come e perché è avvenuta una transazione a dir poco spettacolare e inaspettata.
Jiwei, ha un passato da vicepresidente del Consiglio di Stato e su di lui hanno già messo gli occhi le banche centrali mondiali. Ha appena parcheggiato 200 miliardi nel conto Cic. Ma con i suoi fondi potrebbe pure comprarsi Banca Intesa-SanPaolo e Unicredit.
Cash. È l'uomo che può staccare l'assegno con più zeri al mondo, non è nato a Manhattan, o in California o dalle parti della City. Lou Jiwei, il banchiere che dispone di 200 miliardi di dollari in cassa, è nato nella Pechino più povera, nel 1950, meno di sei mesi dopo la proclamazione della Repubblica Popolare. 
Facciamo un lungo balzo indietro. Il 5 agosto del 1966, le studentesse di una scuola di Pechino, ribattezzatesi Guardie Rosse, aggredirono la direttrice, accusandola di "allestire esami borghesi e di simpatizzare per il capitalismo". La donna, investita da potenti getti di acqua calda, morì per i colpi inferti da bastoni chiodati e fibbie di cinture. Due settimane dopo la leader delle studentesse ebbe l'onore di fissare al braccio del presidente Mao Tse Tung una fascia rossa, di fronte a una platea di centinaia di migliaia di Red Guards convenute in piazza Tien An Men. Cominciava così la Grande Rivoluzione Culturale, destinata a scuotere i destini individuali di milioni, centinaia di milioni di cinesi (ndr: sterminandone non pochi). 
Lou aveva solo 16 anni ed era tra (ma non faceva parte) le Guardie Rosse. Lo stesso atteggiamento, in un certo senso, l'ha tenuto nell'89, quell'infausto anno della piazza Tien An Men. 
Era a Shanghai, alla direzione dell'ufficio per la riforma economica. A tre isolati più in là si sentivano le grida della manifestazione in piazza del Popolo. Molti funzionari, in quei giorni, lasciarono la scrivania per scendere in strada. Ma non gli impiegati di Lou. Fece sbarrare le porte dell'ufficio: non era cosa che li riguardasse, disse, perché loro lavoravano. 
Il 29 ottobre 2007, Jiwei è ritornato in piazza Tien An Men, per una cerimonia che ha spaventato cancellerie, banche, Borse dell'occidente: ha celebrato la nascita di Cic, un gigante finanziario in cui ha parcheggiato 200 miliardi di dollari, ovvero una fetta delle sue immense riserve valutarie accumulate vendendo jeans, bambole Barbie, borse taroccate ma anche quasi tutti i computer prodotti al mondo. La paura delle teste d'uovo della Casa Bianca, come pure quelle del Peterson Institute di Washington, hanno una spiegazione: la Cic, per statuto, dovrà fare shopping all'estero. Come dire che dovrà agire da braccio finanziario all'espansione politica e militare di Pechino, affamata di materie prime e ossessionata dalle pressioni di Washington perché freni l'export verso gli Usa, accetti la rivalutazione dello yuan e si pieghi ai controlli internazionali in materia di ambiente, sicurezza e salute. 
Sembra che confidandosi con amici, il Drago abbia detto pochi giorni fa: «Io sono convinto che gli ebrei siano i più intelligenti al mondo. E noi cinesi, che siamo intelligenti quasi quanto loro, vogliamo imparare». 
Forse è per questo che la China Investment corporation mette paura. O forse, ancor di più, perché il sovereign fund del Drago va ad aggiungersi a quello di Singapore, il potentissimo Temasek, ma anche alle analoghe iniziative di Vladimir Putin, dei Paesi del Golfo e, perché no, pure della Norvegia, grande potenza borsistica grazie al fondo di investimento a garanzia delle pensioni delle future generazioni in cui finiscono i profitti da petrolio. Certo, nessuno pensa che a Oslo ci siano mire o sogni di conquista del pianeta o di scorribande finanziarie. O che Singapore, così attenta al proprio benessere, possa trasformarsi in una potenza militare a caccia di avventure. Ma la Russia di Vladimir Putin e la Cina sono ben altra cosa. 
Chi si è subito riparata è stata Angela Merkel, cancelliera kanzerlin di Germania, che ha chiesto e ottenuto assicurazioni che Cic non operi a Berlino e dintorni, almeno senza chiedere permesso. E anche Jean-Claude Trichet, presidente della Bce, ha usato parole forti: «Questi fondi minacciano di cambiare la natura stessa del capitalismo». Esagerano tutti? Forse no: le centinaia di miliardi accumulati da colossi economici che non rispondono ai criteri del mercato possono far saltare le regole. 
Ma le cose non vanno proprio così. Almeno per ora. Jiwei, per la verità, non sembra in grado di seminare il panico sui mercati o di impadronirsi delle leve del capitale. Nella provincia di Guizhou, dove è stato mandato a farsi le ossa come governatore, ha lasciato un ottimo ricordo anche per aver dedicato attenzioni e investimenti alla squadra di calcio di Guiyuang, per la felicità dei tifosi-dipendenti della fabbrica Stella Rossa. Ma il suo primo affare da finanziere, si fa per dire, è stato un bel bidone: 3 miliardi tondi investiti, ancor prima della nascita ufficiale, di Cic nel fondo in Blackstone, il gigante del private equity americano. Peccato che l'acquisto, nella primavera scorsa, sia avvenuto ai massimi. Cosa che non è sfuggita ai conservatori del partito, che mal digeriscono tanto potere nelle mani di tecnocrati tutto cervello, niente passione. Ma non è bastato quel flop a tranquillizzare l'occidente. Le preoccupazioni aumentano perché Pechino è diventata, negli ultimi mesi, uno dei grandi azionisti di Barclays Bank. E presto, su invito degli americani, potrebbe partecipare al salvataggio di Bear Stearns, la banca che più ha patito la crisi dei mutui subprime. E ora è l'ancora di salvataggio di Morgan Stanley. 
Lontani dalle facili battute, la Lunga Marcia verso Wall Street, insomma, è in atto. E gli americani, affamati di denaro, sembrano meno intransigenti ed allarmati degli europei. Anche perché, vista da vicino, la corazzata miliardaria di Pechino ricorda più la vecchia Iri che una Goldman Sachs con gli occhi a mandorla. È comunque ancora difficile interpretare la "missione" di Cic. Anche a prescindere dai primi 60 miliardi di dollari investiti nelle banche di Stato, per sostenere i fondi pensione statali e rimpinguare le casse dei 4 più grandi istituti pubblici (a loro volta impegnati a sostenere industrie pubbliche dai conti traballanti), restano, a quanto pare, abbastanza quattrini per comprarsi il controllo, poniamo in Italia, delle Assicurazioni Generali cash. E avanzano pure alcuni spiccioli. La cosa più importante è cercare investimenti "tranquilli", tanto per ambientarsi nella finanza che conta. Ma non sarà facile: anche l'ingresso in Blackstone doveva servire a fare amicizia con i prestigiatori del denaro, capaci di far soldi dai debiti. Ma chi ci ha rimesso sono stati loro, i finanzieri rossi. 
La Borsa è al centro della politica cinese. Anzi, c'è chi teme che lo "sboom" del listino di Shanghai (con un raddoppio di valore in un anno) o di Shenzhen (più del 170% lo scorso anno) possa far esplodere la protesta: ogni giorno si aprono 200/300 mila nuovi conti per investire in azioni. Come reagiranno i piccoli azionisti, assetati di guadagni, a un crack? Una rabbia che sfoci in un'altra Tien An Men, 18 anni dopo, non è da escludere. E il partito ci pensa: per sgonfiare la bolla si deve concedere la possibilità di investire anche all'estero, a partire da Hong Kong, dove già si scambiano molti titoli cinesi. Aprire le frontiere vorrebbe dire parificare tutte le società. Ovvero far saltare il doppio sistema a vantaggio dei privati. Cosa che la maggioranza del Partito, avallando la protesta dei contadini e degli operai che dal boom hanno tratto solo sacrifici e incertezza, non vuole. Tutto è possibile purché i banchieri rossi, come Lou, sappiano trovare il modo per non far esplodere le contraddizioni nel braciere. Quante responsabilità cadono sulle spalle di questo banchiere di stato, dal curriculum rivoluzionario -ma non troppo- ormai sbiadito, nonostante la stagione turbolenta e tragica che ha attraversato. A 18 anni, pur di evitare la rieducazione nelle campagne prevista dal programma maoista, si arruola nell'esercito. Viene inviato verso le isole Hainan nel sud a far la guardia contro lo sbarco dei controrivoluzionari: 5 anni. Roba da spararsi. A meno che, per un colpo di fortuna, uno non abbia l'occasione di farsi mandare libri di matematica e di riprendere gli studi. E così ha fatto in attesa che, scomparso il Grande Timoniere, la Cina di Deng si scopra affamata di ingegneri. E Lou si offre. Chissà, forse ci vuole uno come lui per non annegare nelle mille contraddizioni di un paese che l'Occidente ormai vive solo come un'enorme fabbrica, senza cuore né passione, ma che è un crogiuolo di ossimori: in nessun'altra parte del pianeta si vendono tante Bentley quante a Pechino, da nessun'altra parte c'è una tale anarchia finanziaria, il grosso delle società dichiara vendite false e intesta all'estero più fatture che può. Da non credere: una bella fetta dei nuovi ricchi tiene nascosta la contabilità delle sue imprese in una cassaforte nascosta nel baule della Bentley. Sapete cos'è il guanxi? È l'arte, oggi assai praticata, di nascondere reddito, liquidità e profitti dai concorrenti e dal partito. Ma come sempre accade, la stagione dei nuovi ricchi si accompagna a quella della povertà che cresce, vecchia e nuova. Tra il 2000 e il 2006, la percentuale dei consumi sul Pil è scesa di dieci punti, dal 46% al 36%. Pochi paesi in Asia hanno percentuali più basse e, tuttavia, pochi al mondo risparmiano di più dei figli del Celeste Rosso Impero: in media, un quarto del reddito. Segno che la fiducia nel futuro è ridotta ai minimi. Ma non potrebbe essere diversamente, perché meno di metà della popolazione urbana ha una qualche forma di assistenza sanitaria, soltanto il 17% ha una parvenza di pensione e la spesa per istruire il figlio unico, un'esigenza sentita in maniera spasmodica da tutti, costa una fortuna. 
Ritorniamo al primo capitolo. La Cic raccoglie il grido d'aiuto lanciato da Morgan Stanley, che si dibatte in perdite trimestrali per 3,56 miliardi di dollari, i primi a macchiare dopo più di ventanni anni i bilanci immacolati della US bank number 2. Le maxi-svalutazioni (9,4 miliardi di dollari), provocate dal tracollo dei prestiti ad alto rischio di insolvenza, hanno lasciato il segno, e reso indispensabile la richiesta di aiuto. China Investment l'ha raccolta, mettendo a disposizione un investimento di 5 miliardi in cambio della possibilità di arrivare a detenere fino a circa il 10% di Morgan Stanley attraverso l'acquisto di titoli convertibili in azioni, con un rendimento del 9% annuo e forse più. I cinesi si candidano dunque a diventare il socio di maggior peso dell'istituto statunitense dopo State Street, facendo leva sulla flessibilità e, soprattutto, sulla straordinaria liquidità tipica dei fondi sovereign, i mezzi attraverso cui gli Stati (in particolare Cina, Russia e Paesi arabi del Golfo) veicolano gli ingenti surplus accumulati. Soggetti da tempo al centro del dibattito economico, considerati da alcuni economisti come un elemento distorsivo dei meccanismi di mercato, i fondi sovrani sono ben conosciuti a Morgan Stanley, al punto da averne stimato il patrimonio in 2.500 miliardi, praticamente il Pil della Germania, mentre altre stime indicano in circa 2 mila miliardi gli asset di questi prodotti. Grazie a Lou Jivei e alla sua China Investment, l'amministratore delegato di Morgan Stanley, John Mack, riuscirà forse a evitare di fare la fine del collega di Merrill Lynch, Stan O'Neal, defenestrato in seguito alla perdita più elevata accumulata negli oltre 90 anni di vita dell'istituto, e dell'Ad di Citigroup, Charles Prince, costretto a dimettersi. Mack, che di recente aveva silurato la co-presidente, Zoe Cruz, non si è "spostato", ma ha deciso di rinunciare al ricco bonus previsto dal contratto (40 milioni di dollari lo scorso anno). Ma questi sono altri discorsi. 
Conclusione. Anche questa è la Cina del prima e del dopo XVII Congresso del Partito comunista più importante del mondo, svoltosi alla fine di ottobre, radunando oltre 2 mila superburocrati nella enorme sala che fronteggia piazza Tien An Men, con grandi applausi al presidente Hu Jintao e al premier Wen Jiabao. I due timonieri dovranno traghettare il paese al dopo Olimpiadi dell'08.08.08 sino al 2012, cercando di perpetuare la quadratura del cerchio: l'innovazione economica con l'ortodossia del partito unico. Dietro le quinte, però, è stata battaglia vera. Il paese è a un bivio: o imbocca la strada che porta a un'economia veramente capitalista e pluralista; oppure, segna il passo senza osare varcare il punto critico. O si dà spazio a Zhou Xiaochuan, il governatore della People Bank of China, che ha chiesto e ottenuto la pulizia dei bilanci bancari, suscitando grandi rancori. Oppure si dà voce al partito delle terre dell'ovest, delle vecchie industrie di Stato che offrono comunque sussistenza a milioni di lavoratori, i quali rischiano la povertà più nera, se scacciati dal posto improduttivo, ma sicuro. Non è dilemma da poco. Ci vorrebbe la zampata di un leader carismatico, alla Deng. Ma Deng Tsiao Ping non c'è più. E nel frattempo la vice premier Wu Yi, la negoziatrice al vertice e una delle donne più potenti al mondo ha annunciato il suo ritiro dalla vita pubblica (e politica). Accontentiamoci di Lou Jiwei, molto attento a questi capovolgimenti, il capitalista rosso che riuscì a non fare la guardia rossa, che potrebbe diventare un leader politico molto importante e che ora chiamano "Il Mago Tse Tung" del futuro prossimo venturo.

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