Il segretario Bersani: «Non farci prendere dall’ansia». Ma il partito già ribolle e Di Pietro incalza
CARLO BERTINI
ROMA
Siamo alla paralisi e, per un partito ridotto così, tre anni sono lunghi. E comunque sia questo spettacolo indecoroso dimostra che non sono abituati a discutere, passano dal silenzio alla rissa». Pierluigi Bersani è consapevole che la situazione ormai può precipitare da un momento all’altro, ma il leader del Pd ieri sera ha subito diffuso un ordine di scuderia preciso a tutti i più alti in grado: «Non dobbiamo farci prendere dall’ansia perché l’errore più grande che potremmo fare ora è abboccare all’amo che si vada subito alle urne. Ci farebbe precipitare in un clima da campagna elettorale, mentre dobbiamo sbrigarci a costruire un’alternativa, incalzando il governo con quattro o cinque proposte chiave». Il tutto nella certezza che ormai «le riforme non si faranno più» e che comunque bisogna parlare con chi nell’opposizione raccoglie la sfida per il governo per mettere a punto un canovaccio di programma condiviso.
Insomma, il tam tam è mettersi al lavoro e accelerare i tempi su un orizzonte di medio periodo, senza inseguire un voto anticipato, ma anche senza dare l’impressione di temerlo, pur sapendo che una delle lezioni tratte dalle regionali, ribadita in più occasioni, è che «ancora gli italiani non ci percepiscono come un’alternativa». Ma se il motto di Bersani è «calma e gesso», per il suo alleato scomodo, Antonio Di Pietro, il tempo stringe e per questo è bene trovare subito un leader che possa sfidare il centrodestra alle urne. Un tema che i due ieri hanno solo sfiorato, in un incontro a porte chiuse mirato più che altro a sciogliere i nodi per la composizione di diverse giunte regionali che si stanno formando in questi giorni. «Bisogna seminare oggi se si vuole raccogliere domani - sostiene però Di Pietro - e dobbiamo individuare già quest’anno il candidato leader».
Ma al di là della prudenza del segretario, la preoccupazione tra le file del Pd è subito risalita. E non è un caso che ieri sera Bersani abbia fatto sapere di aver apprezzato gli argomenti usati da Fini su «democrazia, immigrazione, giustizia, valori, unità del Paese». Come a ribadire che, con il presidente della Camera, sui contenuti si può dialogare, eccome. Senza mettersi a scrutare la palla di vetro per capire quel che avverrà, anche se non sono pochi i dirigenti democrats che si spingono nel formulare diverse profezie. Ancora una volta è l’ex Udc Marco Follini a dire in chiaro quello che molti pensano: «Non escludo affatto - spiega intervistato dall’Espresso - che Fini, suo malgrado, possa rimettere in discussione il dogma del bipolarismo. Anzi, scommetto sul rimescolamento di carte. Ma la cerimonia degli addii non sarà così semplice né rapida».
Il responsabile riforme del partito, Luciano Violante, scende in Transatlantico reduce dallo spettacolo in tv del duello rusticano tra i co-fondatori del Pdl e allarga le braccia: «Questo sistema così non regge». E il rombo sinistro del maremoto scoppiato all’ombra del Cupolone alla direzione del Pdl risuona anche in casa Pd, dove il timoniere dei cattolici di «Quarta fase», Beppe Fioroni, da giorni alle prese in una guerra di trincea per la formazione delle giunte, non si tiene più: «A destra scoppia lo tsunami ed è bene che da noi non lo interpretino come un venticello. Questa Camera si trasformerà in un Vietnam, ma non vorrei che in mezzo ai vietcong noi ci mettessimo a giocare la parte della forza di pace, perché siamo pure capaci di questo». Per finire con un affondo che, inseguendo scenari futuribili di nuove aggregazioni al centro, suona come una concreta minaccia: «Siccome nel Pd si segue la logica che se uno esce poi diventa alleato, allora dico che questa gestione plurale è una farsa e se non cambia chiederò al convegno di Area Democratica che la minoranza esca da tutti gli organismi dirigenti».
Poco più in là, Pierluigi Castagnetti, che da buon ex dc come Fioroni, ne ha visti di scontri all’arma bianca, ragiona a voce alta. «Una Kadima all’italiana non si farà, ci sono troppi galli nel pollaio, tutti cinquantenni consumati». Ma quelli come Rutelli che hanno scommesso tutto su un tale scenario, oggi brindano e mandano avanti i loro pretoriani: «Quello di oggi - obietta Gianni Vernetti dell’Api - non è stato uno spettacolo indecoroso, bensì un momento importante della vita politica italiana» che dimostra come siano maturi i tempi «per costruire un nuovo Centro democratico, liberale e riformatore. E per questo progetto il contributo di Fini sarà di grande importanza».
Siamo alla paralisi e, per un partito ridotto così, tre anni sono lunghi. E comunque sia questo spettacolo indecoroso dimostra che non sono abituati a discutere, passano dal silenzio alla rissa». Pierluigi Bersani è consapevole che la situazione ormai può precipitare da un momento all’altro, ma il leader del Pd ieri sera ha subito diffuso un ordine di scuderia preciso a tutti i più alti in grado: «Non dobbiamo farci prendere dall’ansia perché l’errore più grande che potremmo fare ora è abboccare all’amo che si vada subito alle urne. Ci farebbe precipitare in un clima da campagna elettorale, mentre dobbiamo sbrigarci a costruire un’alternativa, incalzando il governo con quattro o cinque proposte chiave». Il tutto nella certezza che ormai «le riforme non si faranno più» e che comunque bisogna parlare con chi nell’opposizione raccoglie la sfida per il governo per mettere a punto un canovaccio di programma condiviso.
Insomma, il tam tam è mettersi al lavoro e accelerare i tempi su un orizzonte di medio periodo, senza inseguire un voto anticipato, ma anche senza dare l’impressione di temerlo, pur sapendo che una delle lezioni tratte dalle regionali, ribadita in più occasioni, è che «ancora gli italiani non ci percepiscono come un’alternativa». Ma se il motto di Bersani è «calma e gesso», per il suo alleato scomodo, Antonio Di Pietro, il tempo stringe e per questo è bene trovare subito un leader che possa sfidare il centrodestra alle urne. Un tema che i due ieri hanno solo sfiorato, in un incontro a porte chiuse mirato più che altro a sciogliere i nodi per la composizione di diverse giunte regionali che si stanno formando in questi giorni. «Bisogna seminare oggi se si vuole raccogliere domani - sostiene però Di Pietro - e dobbiamo individuare già quest’anno il candidato leader».
Ma al di là della prudenza del segretario, la preoccupazione tra le file del Pd è subito risalita. E non è un caso che ieri sera Bersani abbia fatto sapere di aver apprezzato gli argomenti usati da Fini su «democrazia, immigrazione, giustizia, valori, unità del Paese». Come a ribadire che, con il presidente della Camera, sui contenuti si può dialogare, eccome. Senza mettersi a scrutare la palla di vetro per capire quel che avverrà, anche se non sono pochi i dirigenti democrats che si spingono nel formulare diverse profezie. Ancora una volta è l’ex Udc Marco Follini a dire in chiaro quello che molti pensano: «Non escludo affatto - spiega intervistato dall’Espresso - che Fini, suo malgrado, possa rimettere in discussione il dogma del bipolarismo. Anzi, scommetto sul rimescolamento di carte. Ma la cerimonia degli addii non sarà così semplice né rapida».
Il responsabile riforme del partito, Luciano Violante, scende in Transatlantico reduce dallo spettacolo in tv del duello rusticano tra i co-fondatori del Pdl e allarga le braccia: «Questo sistema così non regge». E il rombo sinistro del maremoto scoppiato all’ombra del Cupolone alla direzione del Pdl risuona anche in casa Pd, dove il timoniere dei cattolici di «Quarta fase», Beppe Fioroni, da giorni alle prese in una guerra di trincea per la formazione delle giunte, non si tiene più: «A destra scoppia lo tsunami ed è bene che da noi non lo interpretino come un venticello. Questa Camera si trasformerà in un Vietnam, ma non vorrei che in mezzo ai vietcong noi ci mettessimo a giocare la parte della forza di pace, perché siamo pure capaci di questo». Per finire con un affondo che, inseguendo scenari futuribili di nuove aggregazioni al centro, suona come una concreta minaccia: «Siccome nel Pd si segue la logica che se uno esce poi diventa alleato, allora dico che questa gestione plurale è una farsa e se non cambia chiederò al convegno di Area Democratica che la minoranza esca da tutti gli organismi dirigenti».
Poco più in là, Pierluigi Castagnetti, che da buon ex dc come Fioroni, ne ha visti di scontri all’arma bianca, ragiona a voce alta. «Una Kadima all’italiana non si farà, ci sono troppi galli nel pollaio, tutti cinquantenni consumati». Ma quelli come Rutelli che hanno scommesso tutto su un tale scenario, oggi brindano e mandano avanti i loro pretoriani: «Quello di oggi - obietta Gianni Vernetti dell’Api - non è stato uno spettacolo indecoroso, bensì un momento importante della vita politica italiana» che dimostra come siano maturi i tempi «per costruire un nuovo Centro democratico, liberale e riformatore. E per questo progetto il contributo di Fini sarà di grande importanza».
Nessun commento:
Posta un commento