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15 mag 2009

Le fabbriche delle idee


Davanti alla crisi ci vuole un colpo d’ala. Ecco i più “creativi”, rappresentativi di un’arte tutta italiana. Quella di arrangiarsi. E non arrendersi

Operai che diventano azionisti, impiegati trasformati in operai. E in fonderia si lavora di notte per risparmiare corrente.



«Loro la crisi, noi la soluzione». È scritto su un adesivo distribuito alla manifestazione dei sindacati a Roma, il 28 marzo scorso: adesso se ne sta attaccato su un armadietto, in una delle aziende da noi visitate. Quasi un mantra per operai e impiegati che sentono il peso della recessione, ma cercano di uscirne con un colpo d’ala, un’idea creativa che seppure non ribalti la situazione, contribuisca almeno ad attenuarne le conseguenze. Allontanando il più possibile il rischio di aumentare il conto di quei 370mila posti di lavoro persi nel 2009. La moka è sulla piastra elettrica.

Sono le 4 del mattino, Enrico e Roberto nella cabina del reparto siviere ne hanno ancora per qualche ora, la tazzina ci vuole. Le siviere servono a trasportare l’acciaio fuso, un magma che ribolle a 1600 gradi: dopo averlo immesso nel processo di produzione, in questi enormi pentoloni restano gli scarti della fusione. La stessa sorte tocca a una parte della retribuzione degli operai dell’Alfa Acciai di Brescia: lasciano sul fondo della busta paga un residuo di stipendio, ma 250 posti di lavoro sono salvi. A fronte di una crisi che nel settore dell’acciaio ha falciato circa 17mila posti, a Brescia si sono dati da fare per tamponare l’ondata di licenziamenti. «A gennaio si è prospettata una situazione pesante e il sindacato ha proposto una soluzione alla prop rietà» spiega Giambattista Cò, delegato Fim. L’uovo di Colombo, lavorare solo di notte e nei weekend, perché l’energia elettrica costa meno e permette l’abbattimento dei costi di produzione. 740 operai hanno accettato. I soldi risparmiati sono serviti a integrare i contratti di solidarietà. «La riduzione del 25 per cento delle ore lavorate è compensata al 70 per cento in busta paga dalla quota del ministero. L’azienda ha potuto aggiungere il 10 per cento. Alla fine ogni operaio perde meno del 10 per cento del salario». Un ombrello per passare sotto l’acquazzone (speriamo breve) della crisi. Certo, a scambiare il giorno con la notte la vita ti cambia, ma gli operai sembrano soddisfatti. «In fondo abbiamo più tempo per la famiglia, stiamo con i figli, li seguiamo a scuola» . Il caffè sta per uscire. La nottata è lunga. Passerà.

Anche in fabbriche più piccole dell’Alfa si sono trovate risposte illuminate alla notte fonda dell’economia. In due aziende del tessile, in crisi anche per la concorrenza cinese, sono stati i dipendenti stessi (principalmente donne) a farsi carico dei rischi d’impresa, puntando sulla qualità del Made in Italy. L’Art Lining di Sant’Ilario d’Enza, nella campagna reggiana, è specializzata in interni per cravatte e l’alta tecnologia dei suoi impianti non ha concorrenti, non solo in Italia. La contrazione del 40 per cento del mercato e la poco oculata gestione della proprietà hanno portato la fabbrica, che si chiamava Lincra, al fallimento: 11 dipendenti l’hanno comprata e trasformata in cooperativa. «Abbiamo fornito la copertura finanziaria necessaria» spiega Daniela Cervi di Legacoop «e i soci lavoratori hanno investito 11mila euro ciascuno, derivanti dall’anticipo dell’indennità di mobilità e dalle trattenute in busta paga». «Ci vuole coraggio, nel tuo prodotto ci devi davvero credere» dicono Stefania Ghidoni e Marino Piccagliani, vicepresidente e direttore. Si sente l’orgoglio di aver preso in mano il proprio destino. «La nostra iniziativa è piaciuta e ci ha fatto anche acquisire nuovi clienti» dice Natalia Lei, cucitrice. Stessa storia alla Tabitaly di Foiano, provincia di Prato, produzione di cabine e piatti per docce venduti in tutto il mondo, a cominciare dagli Emirati Arabi. A fronte della minaccia di chiusura l’azienda è stata trasformata in srl e gli operai sono diventati azionisti con quote da sei a 12mila euro. Per ora l’esperimento funziona. Per la camiceria Filo di Fate, storia e fierezza simili ma forma societaria diversa. Quando la Lorenzini, antica camiceria di Merate ha deciso di chiudere lo stabilimento di Nembro (Bergamo), 17 dipendenti non hanno voluto disperdere un know-how di elevata qualità e hanno fatto il salto carpiato: sono diventati i principali fornitori dell’ex datore di lavoro. Solo due hanno rilevato l’azienda, gli altri sono rimasti dipendenti: «Non tutti se la sono sentita di mettersi in cooperativa» spiega Massimo Pomari «e così io e Rosanna Biava siamo i titolari, ma siamo una grande famiglia». Nella loro impresa Pomari e Biava hanno coinvolto tutti e tutti hanno dato una mano, dal sindaco al commercialista. «E i parenti: mio padre mi ha aiutato nei weekend a smontare e rimontare i macchinari» sottolinea Pomari. Ora centinaia di camicie sventolano sugli stand. Maria, sarta e vulcanica tifosa atalantina, ricama a casa di notte le etichette col marchio “Filo di Fate”: «È il mio contributo extra alla causa».

«Nei momenti di difficoltà occorrono fantasia e coraggio». A dirlo è Marco Giovannini, patron della Guala Closures. La sua azienda è leader mondiale nella produzione di tappi antisofisticazione per superalcolici, ha 22 stabilimenti in 12 paesi diversi (dalla Colombia alla Nuova Zelanda) e 2.300 dipendenti. Per 30 di loro, impiegati nella sede centrale di Spinetta Marengo (Alessandria), la vita lavorativa, e non solo quella, ha innestato la retromarcia. «Abbiamo proposto a un gruppo di impiegati in esubero di diventare operai, mantenendo il posto e la stessa retribuzione fino al giugno 2010, con la prospettiva, ci auguriamo, di farli rientrare nelle loro funzioni». Garanzie non ce ne sono, e quindi alcuni hanno preferito la pensione anticipata o la “buonuscita”. In 13 hanno accettato. «Prima ero in amministrazione ora faccio i turni di notte una settimana su tre e mia moglie li fa in ospedale: ci sono periodi in cui quasi non ci vediamo» spiega un po’ preoccupato Paolo Semino, destinato alle macchine per 18 mesi. C’è anche un peso psicologico da sopportare, quello di aver perso la posizione faticosamente raggiunta. «Certo, è come essere tornato indietro di vent’anni, quando ho iniziato. Però ho salvato il posto»

corriere

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