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14 mag 2009
La classe dirigente che ha 40 anni
Non era nella mia agenda». Lo dice così, semplicemente. Con la tranquillità di chi invece ormai da un paio d’anni ha preso in mano con successo le redini di uno dei marchi sui quali si è costruito il mito del made in Italy. No, non era nella sua agenda. «Facevo altro e con soddisfazione», dice Alessandro Benetton, dopo aver appena terminato la riunione del consiglio d’amministrazione di Autogrill (una delle società controllate dalla sua famiglia). Oggi è vicepresidente esecutivo della Benetton Group, di fatto il numero uno. Nella dépendance milanese del gruppo, un palazzotto con giardino nel cuore della Milano fine Ottocento, spizzica del sushi. Indossa giacca e cravatta anche se è chiaro che si trova a proprio agio senza l’una e l’altra. Ma il business richiede i suoi prezzi. E Alessandro Benetton non è arrivato a capo dell’azienda di famiglia solo per diritto di nascita. Anzi. Come lui dice appunto, “faceva altro”. Tanto che ancora oggi viene considerato il «giovane Benetton ». Ma, anche se li porta bene grazie a sport e vita lontana dalle metropoli, i suoi anni sono comunque 44. E, quando le riviste di celebrities si occupano di lui, lo fotografano in compagnia dei suoi figli, Agnese (7 anni), Tobias (5) e l’ultima, Luce, avuti dalla campionessa di sci Deborah Compagnoni. E l’altro che faceva era abbastanza semplice: guidare la compagnia figlia di quella banca di investimento che a 26 anni aveva deciso di creare a Treviso. Quella 21 Partners evoluzione della 21 Investimenti che lo ha fatto diventare nelle cronache finanziarie il “pioniere del private equity” in Italia. Che oggi gestisce fondi per un miliardo in Europa e che dall’88 ha fatto qualcosa come 70 investimenti in altrettante società.
Già, nell’Italia dove i passaggi generazionali, quando avvengono, sembrano lunghi e infiniti, Alessandro Benetton pare l’eccezione. Anche se apparentemente ancora poco compresa. Persino all’ultima assemblea dei soci della Benetton, la domanda ripetuta al capostipite Luciano è stata: quando lascia il gruppo a suo figlio. Peccato che ciò sia avvenuto ormai due anni fa. E lo stesso Luciano sorridendo abbia risposto: «Veramente è da tempo che io non solo non sono in panchina, ma nemmeno nello spogliatoio». È come se l’Italia facesse fatica ad accettare il fatto che i quarantenni possano guidare compagnie e addirittura nazioni come succede nel resto del mondo. E così i Guido Barilla, gli Andrea Bonomi, vengono considerati “giovani”. Dice ancora Alessandro Benetton: «C’è un fattore generazionale che si fa sempre più evidente ma non ridurrei la questione a pura anagrafe. Il fenomeno del nuovo presidente Obama, o di quello francese Sarkozy, ha certamente caratterizzazioni generazionali e anagrafiche, ma sono convinto che ciò indichi anche altro: il desiderio di cambiare, di migliorare il Paese, di accettare che le cose si modifichino. E questo vale anche per le aziende di casa nostra».
Non è un caso che il lavoro iniziato due anni fa da Alessandro Benetton non sia quello di gestire l’azienda sulla quale la famiglia ha costruito l’impero, ma di fare in modo che anch’essa possa camminare sulle gambe dei manager lasciando ai soci il ruolo pieno di azionisti. Si tratta dell’azienda di famiglia, dove tutto ha avuto ini zio. E quel tutto significa oggi una holding, Edizione, che controlla a sua volta una finanziaria come Sintonia, da 10 miliardi, dove sono contenute le partecipazioni in infrastrutture che vanno dalle Autostrade agli Aeroporti di Roma a Telecom a Grandi Stazioni; come pure Autogrill e infine la Benetton. Ma se tutte le altre società sono affidate a manager, a professionisti, per la Benetton il processo è in corso d’opera e ad Alessandro Benetton è stato affidato il compito della transizione. «È per questo che non sento contrapposizione con quello che ho fatto in passato e con il ruolo che continuo ad avere in 21: accompagnare società alla crescita attraverso una managerializzazione di aziende». Una storia per certi versi parallela a quella di Andrea Bonomi, figlio di Carlo, altra famiglia imprenditoriale italiana, con il quale a suo tempo si sono incrociate le strade attraverso la 21.
Certo, l’essere nato Benetton vantaggi gliene ha dati. E lo riconosce. Era all’università e suo padre era già considerato uno degli imprenditori più innovativi e moderni del pianeta. Capace di lanciare e affermare in un mondo ancora in bianco e nero un’idea colorata. «Ma sbaglia chi pensa che il vantaggio sia poter avere un portafogli a disposizione. La mia famiglia mi ha dato soprattutto un’etica, una cultura, una propensione al rischio, un modo di essere che è basato sul fare», spiega. «Stavo finendo l’università negli Stati Uniti, ero avanti con gli esami e volevo finirla in anticipo. Ma la cosa non era possibile. E allora mi stavo dando da fare per mettere a frutto il tempo dall’altra parte dell’Atlantico. Con qualche perplessità trovai solo un corso di fotografia poco attinente con i miei studi. E tanto per capire come si ragiona nella mia famiglia, mio padre mi incoraggiò: guarda che anche leggere Topolino può essere utile, mi disse».
Lo stesso Luciano Benetton che qualche anno dopo, a studi finiti all’università di Boston, un master ad Harvard, fu dalla sua parte quando si trattò di creare la banca. «Da padre credo che ci voglia forza nello spingere i propri figli a rischiare. E ora che si tratta di passare a una gestione di manager l’azienda di famiglia sono quei valori della famiglia che fanno da bussola». «Si tratta di riconoscere l’importanza di un azionista che vuole dare longevità alla propria creazione ben oltre l’azionista stesso. Se avessimo dato retta a quello che secondo i cicli di moda nell’economia e nella finanza andava fatto chissà dove saremmo ora. Ci avevano consigliato di vendere gli immobili, di indebitarci oltre i livelli che ritenevamo adeguati. E non avremmo fatto un buon lavoro per noi, i dipendenti, gli stakeholder». A sentirlo parlare sembra che Alessandro Benetton non si sia formato affatto alla Goldman Sachs e che sia tutt’altro che l’uomo esperto di finanza attivo fino a qualche anno fa nel private equity. «Ma no, ma no, è semplicemente che l’aver creato aziende significa anche dotarsi di un forte senso di responsabilità nei confronti dell’impresa, ma anche della società, degli altri come di noi stessi. Per guardare con senso etico anche all’esterno del sistema aziendale: al contesto sociale, al territorio, ai valori ambientali. Per conciliare la creazione di valore con una maggiore uguaglianza sociale».
Gli episodi recenti di sequestri di manager e film come Louise-Michel (la commedia dove si racconta di un gruppo di operaie che assoldano un killer pasticcione per uccidere il manager che le ha licenziate), sembrano averlo colpito molto. Di fatto indicano che esiste un problema di coesione sociale. «È opportuna una nuova alleanza tra capitale e lavoro, tra etica e democrazia, per evitare che la crisi, prima finanziaria poi economica, diventi proprio deficit di uguaglianza e quindi problema sociale», spiega.
E anche l’atteggiamento rispetto alla finanza deve essere quello di chi ne capisce le potenzialità. «Non si deve confondere l’eccesso con la possibilità di accesso al capitale. È anche grazie alla finanza se esistono oggi un’India, una Cina, persino un’Africa che cresce al 5%, avviate sulla strada dello sviluppo». L’idea è quella di riuscire a conciliare il profitto e la missione con i valori sociali. Il sentiero non è di quelli larghi o immediatamente comprensibili. L’iniziativa di microcredito che Alessandro Benetton ha voluto lanciare in Senegal con il cantante Yossou N’Dour fornendo capitale per la banca Birima, accuse di rischio strumentalizzazione se le è prese. Eppure Benetton è convinto che si possa coniugare l’impegno, il fare profitti e allo stesso tempo essere attenti alla società e all’ambiente.
Una visione che sembra confinare con la politica. Una vicinanza con la politica. «Se fossimo stati vicini alla politica magari la fusione tra Autostrade e Abertis si sarebbe fatta. No?». Eppure la famiglia ha approfittato non poco delle privatizzazioni … «Sì ci è stato detto che siamo monopolisti: quando abbiamo preso Autogrill aveva ricavi per 800 milioni tutti realizzati sul territorio nazionale, oggi fa 6 miliardi di ricavi e solo il 20/21% realizzati in Italia. E il recente arrivo di Stefano Cao a Sintonia, un uomo ex Eni che ha sempre lavorato sui mercati esteri, la dice lunga sulla proiezione internazionale». Se proprio si vuole trovare una contiguità con la politica (a parte la breve esperienza del padre come senatore repubblicano) la si deve cercare ancora dalle parti della famiglia. Ed è un’incursione che non gli toglie il sorriso che ha sul volto. «Ma sì, qualcuno in passato può essersi meravigliato per il fatto che la Fininvest fosse nella mia 21 Investimenti assieme alle Generali e a Deutsche Bank. Ma se devo essere sincero è un buon investimento…». Marina Berlusconi assieme a John Elkann (padrino di suo figlio Tobias) fa parte della stretta cerchia di amici di Alessandro Benetton. Quella insomma che viene inseguita dai fotografi di celebrities, come accaduto la scorsa estate, quando in Costa Azzurra lui e la sua famiglia con quella di Marina furono fotografati a bordo del Besame della presidente di Mondadori e Fininvest. E sempre Marina e John erano al suo tavolo per la festa parigina dei 40 anni di Benetton. E così, finito di sbocconcellare il sushi milanese, non aspetta altro che di tornarsene dai suoi ragazzi dalle parti di Treviso, nella casa nel verde disegnata da Tadao Ando.
corriere
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