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28 apr 2009

American Casino



In fila Per vedere «American Casino» la gente si mette in fila
Giochi proibiti a Wall Street
Vite rovinate dai mutui e broker come mafiosi pentiti nel docu-film sulla crisi che emoziona tutti al Tribeca



NEW YORK - Ci sono facce note - l’ex capo della Federal Reserve, Alan Greenspan, che balbetta da­vanti al Congresso, ammettendo i suoi errori, l’ex presidente Bush che nel 2002 promette alle minoran­ze povere, neri e ispanici, di farli di­venire proprietari di case, come i bianchi benestanti - e facce meno note: quelle della borghesia nera di Baltimora che gli ha creduto, si è ca­ricata sulle spalle un mutuo e ora è «homeless». Ma la faccia che colpi­sce di più è quella del banchiere che racconta la follia di un’era in cui tutti rischiavano grosso coi sol­di degli altri: inquadrato in penom­bra, senza nome, la voce distorta per renderla irriconoscibile, come un pentito di mafia.

Al Tribeca Film Festival di New York, il pubblico della prima di American Casino, primo documen­tario sulla crisi finanziaria girato dalla giornalista tv Leslie Cockburn, si spella spesso le mani, sghignazza quando l’ex capo di AIG, Martin Sul­livan, nega che la sua assicurazione abbia fatto scelte scriteriate mentre un sottotitolo avverte che la compa­gnia, nazionalizzata, è già costata ol­tre 150 miliardi di dollari al contri­buente Usa. C’è anche tempo per la commozione quando, alla fine del­la proiezione, la regista e i produtto­ri, mentre dialogano col pubblico, chiedono ai personaggi che compa­iono nel film di alzarsi. Non sono at­tori ma «broker» pentiti, il giornali­sta di Bloomberg che ha spiegato agli spettatori i segreti dei mutui «subprime», e, soprattutto, donne e uomini neri di Baltimora che han­no perso la loro casa. Sheila, che vo­leva pagare per un po’ di tempo ra­te ridotte, ma ha trovato solo porte chiuse; Almalene, che adesso dor­me in un’auto, con la figlia; e Den­zel, il mite professore che ci ha ap­pena mostrato l’appartamento, l’«american dream» conquistato col lavoro suo e della moglie, che gli è scivolato via dalle mani: le cata­ste di libri da portare via, i giocatto­li della bambina, abbandonati nel fango in giardino.

La sala di proiezione è a un chilo­metro, in linea d’aria, da Wall Stre­et, ma non si vedono in giro ban­chieri. Una folla colorita di giovani e intellettuali fa un’ora di fila sul marciapiede dell’Undicesima stra­da per conquistare gli ultimi bigliet­ti disponibili. Se tra loro c’è qual­che «broker», si è travestito bene. Un distinto signore con una bella chioma grigia, dopo mezz’ora di co­da, comincia un andirivieni «so­spetto » con l’ingresso del cinema. Ancora un po’ e ricompare con alcu­ni tagliandi che distribuisce agli amici in fila con lui. Favoritismi? Ba­garinaggio? Nessuno protesta. Meglio così, perché a fine proie­zione scopriremo che quel signore è Andrew Cockburn: marito della regista e produttore egli stesso del lungometraggio. Evita la coda - ma solo perché aveva acquistato il bi­glietto «on line» - il Nobel per l’Eco­nomia Joe Stiglitz. Gli chiedono un commento. Lui elogia gli autori ma non riesce a scaldare la platea: si in­fila in una disquisizione sulla neces­sità di far pagare il risanamento del­le banche non ai contribuenti ma agli obbligazionisti.

Creato otto anni fa da Robert De Niro per rivitalizzare la parte sud di Manhattan dopo lo shock dell’ 11 set­tembre, era inevitabile che il Tribe­ca Festival si occupasse di un altro disastro, stavolta finanziario, che ha il suo epicentro a pochi metri dal si­to delle Torri gemelle. Michael Dou­glas sta pensando di interpretare di nuovo l’avido Gordon Gekko in un seguito di Wall Street, il film del­l’ 87. Michael Moore cerca finanzieri disposti a raccontare malefatte pro­prie o altrui davanti a una cinepre­sa. Ma a New York (dove anche So­derbergh porta, con The Girlfriend Experience, una storia di prostituzio­ne in un mondo di banchieri in cri­si) il traguardo è stato tagliato per prima dalla Cockburn con un docu­mentario un po’ prolisso nel descri­vere le vite degli americani rovinati dai mutui, ma che ha due meriti. In­tanto mostra in modo efficace co­me alcune scelte finanziarie spregiu­dicate hanno prodotto effetti sociali devastanti: sobborghi spopolati, co­munità disintegrate, bimbi che ab­bandonano le scuole, perfino nuove specie di zanzare aggressive che pro­liferano in California nelle vasche di plexiglas piantate nel terreno per trasformare casette a schiera in ville con piscina. E poi denuncia il ruolo determinante delle «fee», provvigio­ni incassate dai procacciatori d’affa­ri: la proliferazione dei mutui non nasce da scelte d’investimento erra­te ma dall’ingordigia per le commis­sioni: il 4 per cento su ogni affare, anche se folle. Infine il giornalista. Nel film è il «buono», il saggio che denuncia, ma nella vita reale è lambito anche lui dallo scetticismo. A fine proie­zione le gente non chiede dei ban­chieri (la cui condanna è, per tutti, scontata), ma del ritardo col quale i «media» hanno capito quello che stava accadendo.
corriere

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