Francis Bacon, tra modernità e crudeltà Sessanta opere che mettono a nudo le contraddizioni del nostro tempo e per la prima volta la riproduzione dell'atelier londinese dell'artista.
«Non c'è tensione in un quadro, se non c'è lotta con l'oggetto». È da questa lotta, da questo doloroso scontro di anime che nascono i corpi «disciolti» e i volti sfigurati di Francis Bacon (Dublino 1909-Madrid 1992). All'artista che ha dato una faccia al malessere dell'uomo moderno Palazzo Reale, in collaborazione con Skira e Arthemisia, dedica una ricca mostra antologica. Oltre cinquant'anni di carriera raccontati attraverso sessanta opere, bozzetti, fotografie e, per la prima volta in Italia, la riproduzione per immagini dell'atelier londinese dell'artista. Un mondo caotico di carte, oggetti, appunti, colori, in totale contrasto con l'ordine maniacale che regnava nelle due stanzette di fianco che gli facevano da abitazione.
A un passo dal manicomio
Un uomo complesso, pieno di contrasti, capace di dar vita a un'arte complessa e piena di contrasti: eleganti uomini in poltrona dalla faccia deturpata, austeri papi trasformati in fantasmi, sfingi senza volto, inquietanti autoritratti. «Vorrei che i miei quadri apparissero come se un essere umano fosse passato su di essi», con rabbia, potremmo aggiungere noi, con forza e disperazione, come per strappare loro anima e ricordi. I ricordi di un bambino che veniva punito dal padre perché amava vestirsi da femmina. L'anima di un ragazzo che a soli 17 anni fu cacciato da casa e riuscì a sopravvivere grazie a mezzi e mezzucci. «Se Bacon non avesse dipinto sarebbe finito in manicomio», ma non è questo il punto, la grandezza dell'artista sta nell'aver saputo trasformare il suo masochismo, i suoi disturbi psichici (la passione morbosa per deformità e mutilazioni), il suo personalissimo disagio in dolore universale. Non più urlo solitario ma strazio collettivo.
L'intimo universale
Le sofferenze più intime diventano specchio del malessere profondo di una società, quella moderna, figlia del benessere, eternamente vincente, ma di fatto incapace di affrontare la morte e il decadimento. «Ciò che mi interessa è cogliere nell'aspetto esteriore degli individui la morte che lavora dentro di loro. Ogni secondo un po' della loro vita se ne va. E questo è un fatto». Non è un caso quindi se, dopo la prima ispirazione picassiana, sarà nella violenta carica espressionistica di Van Gogh e Munch che Bacon riconoscerà la sua cifra. E sarà attraverso il ritratto e l'autoritratto che ricercherà la giusta sintesi tra realtà apparente e inconscio. Negli anni Cinquanta realizzando figure incorporee e spettrali che dal '60 prenderanno volume e solidità (la serie di ritratti di persone care, da Henrietta Moraes a George Dyer), fino a diventare oggetto di ricercati studi nei grandi trittici degli anni Settanta. Sarà solo alla fine della carriera che Bacon smetterà di lottare con i suoi soggetti, trasformandoli in pura essenza, semplici macchie di colore su sfondi neutri.
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