ubblichiamo un estratto del nuovo libro di Ferruccio de Bortoli«Ci salveremo. Appunti per una riscossa civica, Garzanti, 2019»)
L’amara realtà è che anche il governo del cambiamento, in questo in perfetta continuità con il passato, non ha voluto affrontare la grande questione dell’evasione fiscale, uno dei mali endemici del Paese. L’ha semplicemente aggravata. Ricordiamo che, secondo le statistiche del ministero dell’Economia, solo 38.291 persone dichiarano redditi superiori a 300.000 euro. A fronte di un total tax rate, l’insieme di tasse e contributi pagato da un’azienda in Italia superiore al 60 per cento. E la pressione fiscale con l’ultima legge di bilancio è cresciuta dal 41,9 al 42,3 per cento.
C’è chi paga troppo, specialmente se è un lavoratore dipendente e dichiara tutto alla fonte, e chi troppo poco o nulla. Sulla base delle dichiarazioni presentate nel 2018, 13 milioni di italiani sono a Irpef zero. E gran parte di loro è sotto al livello Isee, che però è un indicatore familiare previsto anche per il reddito di cittadinanza. Il 45 per cento dei contribuenti, che vale il 4 per cento dell’Irpef totale, è al di sotto dei 15.000 euro. Tra 15.000 e 50.000 euro troviamo il 50 per cento delle dichiarazioni, che copre il 57 per cento dell’Irpef totale. Da questi dati siamo un Paese messo molto, molto male. Ma secondo l’Istat, per ogni 100 euro dichiarati al Fisco se ne spendono 111. Siamo il Paese dei miracoli, non c’è dubbio. La sensazione è che anche i pochi strumenti a disposizione per controllare il fenomeno siano stati depotenziati o abbandonati. Non c’è più il redditometro, dopo che il «Decreto dignità» lo ha reso di fatto non utilizzabile almeno fino a quando non verranno fissati i nuovi criteri per determinare il reddito in relazione ai consumi del contribuente. Le indagini finanziarie, nonostante la creazione di un gigantesco archivio con tutti i dati dei conti correnti, carte di credito, investimenti di varia natura e persino il numero di accesso alla cassetta di sicurezza, sono sempre meno utilizzate da Guardia di Finanza e Agenzia delle entrate. Con l’inizio del 2019 sono stati consegnati alla voluminosa storia fiscale italiana gli studi di settore. Discutibili, bocciati anche dalla Corte costituzionale ma comunque dotati di una qualche efficacia nel contrasto a elusione ed evasione. Saranno sostituiti dagli indici sintetici di affidabilità fiscale (Isa).
Gli effetti
Con quali effetti reali e di deterrenza? La stessa fatturazione elettronica, in vigore dal 10 gennaio 2019, nella fase iniziale è stata oggetto di dubbi e rinvii sull’applicazione delle sanzioni. È uno strumento utile ma non risolverà tutti i problemi legati all’evasione, come di recente ha ricordato uno studio della Commissione europea. La fattura elettronica favorirà l’incrocio dei dati per intercettare con tempestività chi per esempio invia la fattura ma poi non versa l’Iva o chi utilizza crediti Iva non spettanti, come emerge anche dai primi riscontri dell’Agenzia delle entrate. Chi non ha mai rilasciato una fattura continuerà probabilmente a tenere lo stesso atteggiamento. L’Ufficio parlamentare di bilancio, all’epoca del governo Gentiloni, aveva espresso molti dubbi sull’entità del gettito atteso (2 miliardi). Ed è forse l’importanza del valore economico della fatturazione che ha indotto il governo Conte a mantenerla, nonostante il suo vicepremier Di Maio non l’abbia mai particolarmente apprezzata. Come non venne apprezzato il meccanismo dello split payment, ovvero lo Stato che trattiene direttamente l’Iva sulle forniture. Con il «Decreto dignità» è stato abolito per i professionisti.
Le dimensioni del «nero»
Secondo la Commissione Giovannini — i cui dati sono aggiornati con i conti nazionali Istat — l’ammontare dei pagamenti in nero è stimato in Italia intorno agli 80 miliardi annui. Eppure basterebbe poco per incrociare le varie banche dati e ridurre il fenomeno dell’evasione fiscale. Il tax gap — ovvero la differenza tra imposte e contributi teorici e quelli effettivamente versati — ammontava nel 2015 a 107 miliardi, di cui 11,6 per le sole entrate contributive (la media delle imposte evase nel triennio 2013-15 è stata di circa 109 miliardi). L’Iva è l’imposta più evasa (35 miliardi). E ha un effetto di trascinamento su altri tributi: Irap, Ires e Irpef per lavoro autonomo e impresa. Mancano altri 48,8 miliardi. Complessivamente il tasso di evasione è del 21,3 per cento, ma se si escludono i lavoratori dipendenti e i pensionati, sui quali grava buona parte del peso fiscale, su ogni 100 euro di tasse e contributi teorici ne vengono mediamente evasi oltre 30. Con un dato ancora più sconcertante se riferito alla platea dei contribuenti che paga l’Irpef da lavoro autonomo e impresa (professionisti, artigiani, commercianti): ogni 100 euro dovuti se ne evadono circa 68. E questa è la fascia dei cittadini premiata con la cosiddetta flat tax dal governo del cambiamento! Le statistiche mostrano una inquietante stabilità negli anni del tax gap.
Sotto la media europea
Non riusciamo a contenere l’evasione nei limiti fisiologici di altri Paesi. Ma è davvero impossibile sconfiggere l’evasione a colpi di condoni, sconti, rottamazioni, paci fiscali. Chi paga tutto e per tempo è semplicemente un fesso. Carlo Cottarelli, nel suo libro I sette peccati capitali dell’economia italiana (Feltrinelli, 2018), spiega che se avessimo un livello di fedeltà fiscale pari alla media europea, il recupero di parte consistente di quella evasione annuale ci consentirebbe di avere un debito pubblico più gestibile e meno costoso. E potremmo investire di più nella crescita del Paese. L’andamento del debito pubblico e dell’evasione fiscale fotografa alla perfezione i nostri due principali difetti. Cioè l’irresponsabilità nei confronti delle future generazioni e il disinteresse per i beni pubblici che si tutelano anche versando le tasse dovute. Una volta Tommaso Padoa-Schioppa, quando era ministro dell’Economia, se ne uscì con una espressione infelice. Disse che le tasse erano bellissime perché consentivano di finanziare la comunità, la scuola, la sicurezza, l’esercito. L’espressione più autentica della cittadinanza. Venne frainteso e flagellato. Aveva ragione. Nell’inseguire e persino elogiare la furbizia e la capacità di adattamento, abbiamo contribuito a indebolire le fondamenta della casa comune. Dovremo pensarci noi a rinsaldare le mura. Non l’Europa.
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