di Sergio Luciano
Moody's parla, e la tempesta perfetta si scatena: 537 miliardi di euro di scambi finanziari, quasi un terzo del pil italiano, vorticano il 24 giugno in borsa, abbattendosi sulle quotazioni del titolo Unicredit, il più liquido del mercato italiano, tra i primi cinquanta in Europa. Deprimono il prezzo del 5,5 per cento, stordiscono per qualche ora il listino, tutte le banche sono travolte dallo stesso anatema: «Siete sotto osservazione!»… Le banche più grandi pagano il pegno più salato. Poi, basta. Il polverone si assesta, passano un paio di sedute, arriva un rimbalzo dei prezzi, non è facile capire cosa sia successo davvero.
«È semplice, invece: speculazione. Ingigantita nei suoi effetti dal meccanismo dei derivati, che sovrastavano tanti titoli bancari, e il nostro più di altri, come una nuvola nera» commenta Federico Ghizzoni, da dieci mesi sulla poltrona di comando dell'Unicredit come amministratore delegato. Pacatamente: «Da settimane quella speculazione si accumulava al ribasso contro tutti i valori italiani, aspettando l'occasione buona per incassare. E quel comunicato di Moody's gliel'ha data. Mi chiedo a volte perché non si discuta un po' più a fondo sull'impatto che possono avere i giudizi delle agenzie di rating, soprattutto nella valutazione del merito dei debiti sovrani. Coinvolgendo tutte le banche di quei paesi, per internazionali che siano, per forti o deboli che siano».
Ci vuole un fisico bestiale per reggere da quassù le sorti di una banca che lavora in 50 paesi, ha 160 mila dipendenti per un totale di attività pari a circa 900 miliardi di euro. Se poi ci si mette pure la speculazione bisogna essere Rambo. «Insomma, sport ne facevo, ma soltanto calcio e ora neanche più quello…» si schermisce Ghizzoni. Sorride, lo Straniero. Vent'anni a lavorare fuori sono una vita. Lontano dalla Prima repubblica e dalla Seconda. Quel che ci vuole per andare avanti lungo una strada bella dritta? «Sono arrivato a questo incarico senza essere molto conosciuto in Italia ma conoscendo bene la banca. E so che questo è il gruppo europeo con le maggiori potenzialità di espansione. Nessuno ha un business bilanciato come il nostro, su 35 milioni di clienti, il 40 per cento del business in Italia, il 60 fuori, in paesi che galoppano, tutti sopra budget, come Germania, Polonia, Russia, Repubblica Ceca, Serbia, Turchia. Nel 2009 qualcuno ci dava per spacciati per colpa dell'internazionalizzazione. Oggi c'invidiano».
A questo signore piacentino di 55 anni, cortese ma non cerimonioso, è toccato in sorte di sostituire lo «zar» Alessandro Profumo dopo 18 anni di ininterrotto governo della banca. Ha lavorato per quasi un anno in apnea, zero interviste, poche esternazioni: «Ho voluto conoscere da vicino i problemi, incontrare le persone. Come dicevo, vivevo all'estero da tanto, non mi conoscevano. Ma è stato importante per tutti che l'avvicendamento al vertice sia avvenuto con risorse interne. C'era bisogno di ricompattare le file».
Era ancora direttore generale, Profumo, e già l'avevano ribattezzato «Arrogance»: non perché davvero lo meritasse, ma perché il tono non era precisamente quello di un francescano. Con Ghizzoni siamo in un altro film. «Stimo da sempre Alessandro, ma siamo molto diversi. Pensare di imitare un personaggio come lui sarebbe stato assurdo, prima che sbagliato». Ama il dialogo, «ferme restando le responsabilità di ciascuno». Calmo: «No, non mi sento particolarmente sotto pressione, prima di venire qui rispondevo di diciannove mercati ed ero deputy ceo in Austria… Esperienze che formano, che preparano a ruoli del genere. Sento la responsabilità, come dicevo, ma non il peso. Non ho accettato per la gloria, lo dico sommessamente perché non voglio darmi atteggiamenti, ma per servizio, ci voleva un uomo della banca, ho accettato perché questa banca mi sta a cuore».
Perché la stella di Unicredit torni a brillare c'è una montagna di lavoro da smaltire. Certo, nel primo trimestre del 2011 le cose sono andate meglio «e il trend positivo sembra essere stato confermato nel secondo», ma c'è ancora molta strada davanti. «Innanzitutto stiamo lavorando permigliorare lo stock di rischi su crediti». In buona parte eredità di Capitalia, per esempio il caso Cirio, dove il 5 luglio è emersa in tribunale la necessità di un risarcimento da 200 milioni: «Non veniamo colti impreparati anche se l'entità ci pare sproporzionata. Aspettiamo serenamente l'esito del lungo iter giudiziario, posto che la provvisionale sarà sicuramente oggetto di una nostra impugnativa».
Ma non c'è solo il fronte del bilancio, c'è anche quello dei processi gestionali da migliorare: «Forse è dipeso dall'organizzazione tripartita in tre banche diverse» dice Ghizzoni «che nei tempi d'oro dell'espansione è servita molto ma in tempi di crisi genera più costi che redditività».
La soluzione? «Un progetto che si chiama Turnaround Italy, e che ci impone di risolvere i punti di debolezza ereditati. Sta già funzionando e riqualificando i nostri attivi» giura Ghizzoni. Ma come la metterà, lo Straniero, col famoso «sistema» di cui tanto si parla in Italia, e che tra l'altro include a pieno titolo anche alcuni suoi importanti azionisti? Come si comporterà per esempio con i vari clienti scalcinati eppure «di sistema»? Cos'ha fatto l'Unicredit con la Fonsai di Salvatore Ligresti, se non un salvataggio in piena regola, modello Cuccia anni Ottanta? «Guardi, si sbaglia: il caso Fonsai è presto spiegato. Ci siamo entrati per sostenerne una ristrutturazione senza la quale il gruppo avrebbe rischiato seri problemi. E noi con lui. Del resto, il nostro ingresso in Fonsai comporterà anche una gestione nuova, con più attenzione alla trasparenza».
Ma anche un banchiere «cromosomicamente di sistema» parlerebbe così, se avesse il buon gusto di dissimulare le sue intenzioni. O no? «Lasci perdere: in 18 anni di banca ad alto livello all'estero, nessuno fuori dall'Italia mi ha mai parlato del concetto di "banca di sistema". Noi siamo, e quindi dobbiamo essere bene, una banca "per" il sistema. Semmai dobbiamo lavorare per avvicinarci sempre di più alla clientela vera, diffusa, che è l'unico sistema che c'interessa. Per la sua crescita dimensionale, per esempio, che fa poi crescere anche noi». Allora andiamo a scoprire le carte: «Vuole sapere di Mediobanca, delle Generali, di Rcs? Potrei dire che ne seguirò da vicino le vicende, o al contrario che non me ne importa niente, non ci sarebbe differenza. L'importante è incidere dove si deve, quando si deve e come si deve». Riecco lo Straniero: «Sono italiano al cento per cento ma effettivamente avendo vissuto e lavorato all'estero per vent'anni non mi emoziono su questa faccenda della banca di sistema. Una riprova? Abbiamo venduto la Roma calcio a un americano. Un'altra? Non so se avrei messo dei soldi in Parmalat. Certo, passando ai francesi, quell'azienda lavorerà di meno con le banche italiane, noi compresi. Pazienza: la sostituiremo con un altro cliente analogo in uno degli altri cinquanta mercati dove siamo forti. Per chi invece fa in Italia l'80, il 90 per cento del suo business è diverso. Ma per noi il sistema che conta è quello europeo. Ecco: semmai il problema è che in Germania – proprio l'altro giorno ce lo dicevamo tra colleghi, a Monaco – ci sono 50, 60 aziende familiari come la Ferrero con 5-6 miliardi di fatturato. Da noi una sola. Il compito di una grande banca è fare diventare grandi le aziende sue clienti. Oggi siamo l'unica banca forte all'estero, dobbiamo e possiamo aiutare le nostre imprese a internazionalizzarsi». E come la metterà, Ghizzoni, con i particolarismi delle fondazioni, che pure sono state così importanti nel decidere la sua nomina? «Mah, cosa dirle: so far so good…». Prego? «Fin qui tutto bene, volevo dire. Considero le fondazioni azioniste di riferimento, che hanno il 12 per cento del capitale: l'amministratore delegato dell'Unicredit deve confrontarsi con loro, ma anche con tutti gli altri soci». Auguri, Ghizzoni: per esempio con i soci libici… «Quando ci sarà un nuovo governo stabile, potremo riparlare anche con loro come avevamo sempre fatto».
Confrontarsi sul «fare sistema » ma anche sul fare soldi, che poi sono quelli che interessano davvero ai soci. Perché se Bankitalia e la Bce insisteranno nello spremere le banche, imponendo loro di ricapitalizzare, sarà dura staccare dividendi significativi. E gli azionisti si stufano. «E con un po' di ragione» riconosce Ghizzoni. «In linea di massima concordo sui principi di Basilea 3: era giusto che dopo la grande crisi le banche dovessero essere meglio capitalizzate e meglio controllate che in passato, e meno esposte alla leva finanziaria. Queste regole ci stanno spingendo a essere più efficienti e innovativi. Però… fino a un certo punto».
Già: qual è il livello magico? Basilea 3 prescriveva un core-tier 1 (il coefficiente per indicare la stabilità patrimoniale di una banca) a quota 7 per cento entro il 2018. Poi la speculazione ha indotto le banche a una strana galoppata competitiva per cui tutte oggi veleggiano oltre il 9 per cento. «È un errore, il capitale delle banche non dev'essere scarso, ma neanche eccessivo. Se è scarso, la banca è precaria. Se è troppo, la banca non rende».
E chi le ha scritte queste norme sbagliate? Davvero la Goldman Sachs e le banche angloamericane per potere continuare a speculare liberamente sui derivati, scaricando sulle banche commerciali il peso delle maggiori garanzie patrimoniali da presentare? «Effettivamente Basilea 3 non fa sufficienti differenze tra gli attivi delle banche commerciali impiegati verso l'economia reale e verso le imprese e quelli delle investment bank, in buona parte impiegati anche in finanza straordinaria e attività derivate» riconosce Ghizzoni. «Anche se poi, a interpellare le grandi banche d'affari come la Goldman Sachs, si scopre che si lamentano del contrario. Io penso che Basilea 3 dovrebbe riconoscere la peculiarità del lavoro che le banche commerciali svolgono a sostegno delle piccole e medie imprese. Qui servirebbero delle modifiche».
Insomma, il vaccino anticrisi è sfuggito alle mani del medico. La speculazione imperversa, Moody's sparacchia i suoi vaticini nefasti. Di chi la colpa di tutto questo? Chi è l'incendiario della crisi del 2008 che se ne sta ancora lì, nascosto, a giocare con i suoi esplosivi? «Non lo sappiamo ancora, si possono fare mille congetture ma non è ancora stato chiarito, e sarebbe ora di farlo. Le banche italiane la crisi l'hanno subita, non generata. È vero, abbiamo avuto qualche grave defaillance sul fronte della trasparenza: i casi Cirio, Parmalat, bond argentini: ma proprio la crisi ha dimostrato che le nostre strutture erano sane. La crisi è nata negli Stati Uniti, perché sono scattati dei meccanismi patologici tutt'altro che debellati: ha ragione Giulio Tremonti, il valore nozionale dei derivati è tornato su livelli più alti di quelli precrisi, e in alcuni paesi la lontananza tra l'economia reale e la finanza è siderale. Per questo occorrerebberiregolamentare tutta la finanza bancaria per tenerla più legata all'economia reale».
«Quel che conta oggi» sottolinea Ghizzoni «è individuare i metodi sbagliati e raddrizzare la situazione. Il guaio è che non è stato fatto. L'impegno dei regolatori era di fare ricapitalizzare le grandi banche di tutto il mondo entro il 2011 e poi intervenire sulle "shadow bank" (finanziarie al di fuori del sistema bancario, ndr) nel 2012. È il momento di farlo».
Nessun commento:
Posta un commento