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16 mar 2011

Dall'integrazione redazionale a quella dei cervelli

Il giornalismo e l'editoria cambiano a ritmi vertiginosi. Sono anni di transizione. La chiave per interpretarli è la convergenza. In un quadro in cui tutti gli attori - dagli editori ai cronisti - devono fare la loro parte, pena restare ai margini. L'esperienza del citizen journalism e del data driven journalism. Con l'Italia che segna il passo



 

Questo articolo è uscito sul numero di Problemi dell'Informazione 1attualmente in libreria. PdI è una rivista trimestrale del Mulino di Bologna diretta da Angelo Agostini e dedicata alle tematiche del giornalismo e dell'editoria  

CHI, come no
i, ha conosciuto per immersione totale il giornalismo e l'editoria d'informazione sa che nell'ultimo quinquennio la professione e l'industria hanno conosciuto più cambiamenti che nei tre decenni precedenti. Il ritmo d'innovazione non rallenterà perché le tipologie di contenuti e le piattaforme di distribuzione continueranno a moltiplicarsi. Giornalisti ed editori sembrano esserne finalmente consapevoli ed è importante che questa sfida sia percepita più come una opportunità che come una minaccia.

Convergono le funzioni, non gli strumenti. L'era digitale è quella della convergenza. Tuttavia, più sono accessibili le informazioni, i saperi, i passatempi e le amicizie, più cresce il numero degli strumenti. Il paradosso non è dovuto a carenze dei device ma alle abitudini vecchie e nuove dell'utenza. Basta riflettere sull'esperienza di  molti di noi: leggiamo in ufficio il giornale di carta e tuttavia, se siamo in viaggio o in campagna, scarichiamo la sua versione digitale sul tablet; cerchiamo le ultime notizie su un canale tv all-news o su un sito; prenotiamo il treno con il cellulare e durante il viaggio vediamo un film sul lettore 
dvd; ascoltiamo la radio in auto e passiamo all'mp3 in metropolitana; chattiamo con un amico dall'applicazione di Facebook sul cellulare ma appena entrati in casa continuiamo la conversazione dal pc o dal televisore connesso alla rete. 

Alcuni di questi oggetti tecnologici hanno molte funzioni, ma di fatto se ne sfruttano appieno due o tre. L'iPad serve, per ora, soprattutto per l'informazione e i giochi. Eppure niente batte il personal computer quando dobbiamo fare un documento di lavoro o cercare un albergo, lo smartphone è perfetto per telefonare  -  ci mancherebbe!  -  e ascoltare la musica. Con un tablet si può fare quasi tutto ma non sostituisce ancora né il cellulare né il pc, tantomeno la radio. Così come la tv integrata non ucciderà le altre piattaforme, pur inglobandone molte.

Se la convergenza è delle funzioni ma non degli strumenti, chi fa informazione deve articolare il prodotto per ciascuno strumento tenendo conto delle sue caratteristiche specifiche, del pubblico cui si rivolge e dei modi/tempi della fruizione.  Bisogna continuare a sfornare ogni mattina buoni giornali, dare notizie sul sito senza interruzione, produrre video fruibili anche in mobilità, progettare servizi e applicazioni che attraggano la pubblicità sui tablet. 

Un altro modo per dire la stessa cosa è che occorre da parte dei giornalisti e degli editori la consapevolezza culturale, prima ancora che tecnica, delle regole che governano l'universo digitale, dei diversi strumenti narrativi che sono a disposizione per raccontare meglio la loro storia (che è poi il mestiere del cronista) a pubblici diversi in momenti diversi.

I limiti della redazione integrata. Fino a qualche tempo fa si pensava che la soluzione potesse essere adeguare per Internet, magari automaticamente, un filmato nato per la tv, oppure pubblicare sul sito e dare in un notiziario radio l'articolo di un giornalista della carta. Per questo motivo sono stati fatti molti esperimenti partendo dalla più ovvia delle integrazioni, quella delle redazioni. Ma la parola "integrazione" ha significati diversi. In quello più corrivo si immaginava un giornalista che lavora in ogni caso per piattaforme diverse. Un'integrazione apparentemente facile da capire sia per gli editori che puntano a fare economie di personale, sia per i giornalisti che  -  specularmente  -  temono un eccessivo sfruttamento.

Sulla base di questi speculari timori e speranze, l'integrazione in Italia ha battuto il passo più che altrove, frenata da culture e strutture professionali tradizionalmente chiuse. Nel frattempo all'estero la stragrande maggioranza delle redazioni dei quotidiani e di molti broadcaster (in primo luogo la BBC) sono state in effetti "integrate", pur seguendo modelli assai differenti: dalla redazione unica a redazioni divise per mezzo ma coordinate centralmente; da redattori multi-funzione a producer specializzati. Il Daily Telegraph di Londra ha addirittura rivoluzionato gli ambienti di lavoro, creando una redazione a ruota con i capiredattori al centro, i settori di contenuto sui "raggi" responsabili per la diffusione dei propri materiali su tutte le piattaforme. Molta stampa tedesca ha invece mantenuto squadre diverse per il digitale e la carta, ma gestite da un ufficio centrale dove siedono i responsabili delle diverse piattaforme senza che una sia considerata prevalente rispetto all'altra. 

Ma ci sono anche tendenze difformi. L'unico giornale generalista americano a diffusione nazionale,USA Today, che cinque anni fa aveva radicalmente integrato le proprie strutture redazionali, ha deciso di tornare a una organizzazione distinta. A fine ottobre l'annuncio da parte del presidente Dave Hunke: l'attuale organizzazione del lavoro non consente di affrontare con la necessaria elasticità le opportunità legate a piattaforme come gli smartphone e i tablet, dunque sarà rivista. Soprattutto una considerazione di Hunke merita un'attenta analisi: le nuove piattaforme non possono essere trattate come mere estensioni delle vecchie, hanno proprie personalità e propri (potenziali) pubblici che pretendono cure specifiche. Per esempio, l'età media di chi usa il tablet è di 10-15 anni inferiore a quella degli acquirenti abituali dei quotidiani. A questi lettori più giovani gli editori sono chiamati a fornire prodotti adeguati alle loro esperienze ed abitudini digitali.

Tutto questo, però, non deve far pensare che sia opportuno o anche solo possibile continuare come prima, cioè immaginare e  costruire i tradizionali prodotti giornalistici nello stesso modo, con gli stessi strumenti e con la stessa organizzazione del lavoro, limitandosi ad aggiungere redazioni specialistiche comunque subordinate al prodotto principale che viene automaticamente identificato con il prodotto tradizionale (la carta). Questo non è più possibile non solo per ragioni economiche, ma per ragioni culturali: è possibile fare buon giornalismo anche con mezzi tradizionali solo rendendosi conto che questi mezzi sono inseriti in un universo digitale di relazioni e di comunicazione nel quale vigono leggi molto diverse dal mondo analogico. Le redazioni tradizionali devono far propria la cultura digitale, a prescindere dalle tecniche. Per farlo, nell'universo digitale occorre viverci e, per viverci, occorre avere un minimo di strumenti per navigarlo. Si può continuare a scrivere solo per la carta o a fare solo servizi per un telegiornale, ma se vuole raccontare la realtà nessun giornalista può ignorare lo sviluppo delle reti sociali.

L'integrazione dei cervelli. Di fatto l'integrazione che era e che resta necessaria è quella dei cervelli: la coscienza nelle redazioni e nelle aziende che, dal punto di vista dei valori e delle informazioni, uno solo è il giornalismo di una testata, anche se diversi possono e devono essere i modi, i tempi e le piattaforme con i quali essa si mette in relazione con il proprio pubblico. Se poi la redazione di quella testata è formata da poche unità o da uno solo (cosa sempre più frequente, ormai), dovrà chiedersi quali delle diverse funzioni potrà svolgere e quali no, quali forme del prodotto sono migliori per perseguire la mission comunicativo-editoriale e in quale misura sono effettivamente sostenibili. Una redazione più grande avrà il lusso di specializzare le funzioni (come avviene da decenni, per esempio, tra redattori addetti al desk, cronisti e grafici) per pensare i propri contenuti in modo specifico per una piattaforma. Tutto questo non sarà senza conseguenze per il modo di concepire e costruire il prodotto tradizionale. Le nuove funzioni non potranno essere semplicemente aggiuntive: i processi potranno e in alcuni casi dovranno essere distinti, seppure parte di un unico schema e le nuove piattaforme non saranno concepite come supplementi della piattaforma tradizionale o come sue semplici estensioni, bensì dovranno essere vissute come strumenti indispensabili per raggiungere i cittadini dell'universo digitale, e dunque con il proprio peculiare giornalismo di qualità.

Da parte loro gli editori hanno un compito che sembra ai limiti dell'impossibile: non far lievitare i costi (in Europa, negli ultimi tre anni il 50 per cento delle testate ha ridotto il personale) e, insieme, aumentare i prodotti da distribuire. Il tutto senza intaccare la qualità. Come? Con una chiara strategia che preservi il marchio, garanzia di qualità per i lettori/utenti su qualsiasi piattaforma; realizzando condizioni che consentano alle redazioni di raccontare la realtà con i diversi mezzi tecnologici a disposizione; infine, verificando se e come i sistemi e le organizzazioni redazionali possano sostenere i nuovi compiti.

La preparazione professionale. In questo passaggio, sulle spalle dei giornalisti sembra ricadere il peso della responsabilità maggiore. Gli "informatori professionali" devono avere una preparazione che non è mai stata chiesta ai redattori che oggi sono a fine carriera. La predisposizione al multitasking e la disponibilità a provarsi su ogni mezzo sono il bagaglio minimo di chiunque voglia diventare un informatore. Un bagaglio di conoscenze, cioè,  che consenta a ciascuno di immaginare e realizzare la propria storia per pubblici diversi e in momenti diversi. Anche se alla fine ci sarà un giornalista che "scriverà", un altro che "girerà e monterà" un video, uno che costruirà una interfaccia utente per la base di dati raccolti nel corso di una inchiesta. L'importante sarà che il servizio sia pensato in partenza come un tutto unico (la "integrazione dei cervelli") anche se poi i contenuti saranno coniugati da diverse funzioni redazionali.

A queste condizioni, la specializzazione successiva diventa un valore da perseguire e tutelare per qualificare le specifiche capacità narrative proprie delle diverse piattaforme. Nella difficile articolazione del rapporto tra le redazioni dedicate alle diverse piattaforme s'affacciano nuove forme di produzione informativa, che nel giro di pochi anni muteranno natura e forma dell'offerta giornalistica. E' un fenomeno naturale: è il giornalismo che deve inseguire le abitudini e le nuove capacità dei lettori, non viceversa (ma spesso ce ne dimentichiamo). Su questo si misurerà l'attitudine a cambiare, generalmente scarsissima tra chi fa il giornalista.

Tutto ciò, ovviamente, non potrà accadere se gli editori non faranno la loro parte. In particolare se non investiranno maggiori risorse umane e finanziarie in una formazione non occasionale o puramente tecnica, ma strutturata, permanente e orientata a consapevoli obiettivi didattici. 

Se si guarda al panorama internazionale, le ristrutturazioni delle aziende editoriali sono state tutte accompagnate da uno sforzo di riqualificazione e orientamento delle risorse redazionali. Si è tagliato in molti campi, a partire dal personale, ma si è investito fortemente in formazione. E quando si parla di formazione non si intendono solo di corsi per imparare a usare una macchina o un software nuovi, bensì occasioni motivazionali e di approfondimento culturale più ampio, che sole possono fornire una prospettiva di senso allo sforzo supplementare che viene chiesto ai giornalisti che vi partecipano. Purtroppo in Italia la formazione tende a essere casuale, legata il più delle volte a un addestramento puramente tecnico (per esempio, l'introduzione di nuovi sistemi editoriali) e/o frutto di accordi sindacali che mirano in realtà ai benefici economici che vengono legati alla frequenza dei corsi, piuttosto che alla necessità di ripensare e riqualificare la propria attività professionale. Il digitale, invece, non è una tecnica da imparare, ma una cultura da comprendere e da vivere. Cultura di cui fanno pienamente parte i "nuovi giornalismi".

I nuovi giornalismi che la tecnologia rende possibili. Negli ultimi anni si è molto parlato di citizen journalism, a volte con eccessivo ottimismo. Va preso atto del fatto che nessuna redazione può più permettersi d'ignorare il valore dell'interazione e della collaborazione con i lettori/utenti. Gli esempi sono infiniti: oggi molte delle "storie" raccontate dalle redazioni prendono spunto dalla capacità dell'utenza di documentarle e di dar loro una prima evidenza. In realtà ben presto ci si è resi conto che le informazioni professionali di una testata nuotano comunque in un oceano di informazioni di altra natura e che con queste (lo si voglia o no) si confrontano direttamente e costantemente. Quella che un tempo si chiamava la "interattività del giornalismo online" immaginava sostanzialmente uno schema a stella, con il giornale o il giornalista al centro e tanti canali univoci o biunivoci di collegamento tra questo centro e i cittadini/utenti. Lo sviluppo delle reti sociali ci ha portato ben oltre. Una rete, d'altra parte, non è una stella.

Le reti sociali hanno fatto scoprire al grande pubblico (forse anche al "grande pubblico" dei giornalisti) che Internet non è solo un mezzo per comunicare, non è solo un telefono sofisticato o una televisione a portata di qualunque adolescente: è un insieme di relazioni, è una delle forme  -  una delle più importanti  -  assunte dalla vita nell'era digitale. Pertanto il giornalista dell'era digitale - che alla fine produce per il web, per la televisione, per una testata di carta o per la sua versione iPad - deve riconoscere il suo essere nodo collegato ad altri nodi in una rete dove i ruoli si confondono e le funzioni si ibridano. Dovrà navigare in questo oceano privo delle certezze precedenti, pronto a riscoprire la propria funzione e il proprio ruolo di fronte a un pubblico che non si limita più ad ascoltare: esso stesso comunica e lo fa in pubblico. I giornalisti che continueranno ad ignorare tutto ciò lo faranno a proprie spese e a spese della qualità del loro giornalismo: perderanno credibilità e, con uno dei tanti paradossi dell'universo digitale, si creeranno dei temibili concorrenti diretti. 

Il giornalismo dei dati. L'esempio più interessante di giornalismo dell'era digitale viene da quello che alcuni chiamano data driven journalism, una tipologia che prevede articoli, servizi e inchieste basati sul trattamento di enormi quantità di dati e sull'offerta di questi stessi all'analisi diretta dei lettori. Un tipo di giornalismo che non avrebbe mai potuto darsi fuori dall'universo digitale.

Il giornalismo da sempre svolge la funzione di scoprire dati/fatti, di selezionare i più rilevanti per il pubblico e di organizzarli in modo intelligibile. Nel mondo digitale questa funzione può essere portata a livelli superiori: offrendo i dati nella loro interezza e creando significato intorno ad essi.

I dati sono materia che riguarda il lavoro giornalistico, sia come sostanza stessa delle informazioni sia come strumento di esemplificazione di storie e tendenze. Nel mondo analogico il giornalista però deve limitarsi a illustrare o mostrare alcuni dati esemplificativi, nella sua storia o in tabelle allegate. Il nuovo ambiente e i nuovi strumenti digitali consentono invece di mettere a disposizione l'intero insieme dei dati, in modo che ciascun lettore/utente/cittadino possa accedere ai materiali usati dai giornalisti e selezionare quelli rilevanti  per il proprio profilo. 

Questa tendenza ha portato molte testate negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e ora anche in altri paesi europei a sviluppare e a offrire informazioni strutturate, cioè organizzate in database che raccolgono l'intero universo di dati disponibili e che sono interrogabili direttamente dagli utenti/lettori. 

E' una tendenza che è partita dall'informazione locale e iperlocale. Tutto il mondo dell'informazione giornalistica negli USA si va organizzando in questa direzione. Le maggiori testate hanno inserito in redazione le figure di giornalisti/ingegneri, redattori in grado di raccontare la propria storia usando i dati e gli strumenti di visualizzazione dei dati. Il New York Times ha creato una squadra che va sotto il nome di Interactive News Technology e vede lavorare insieme figure professionali diverse ma tutte redazionali. Producono solo materiali informativo-giornalistici. Le testate della catena Gannett sono state radicalmente riorganizzate tre anni orsono e in ogni redazione è ora presente una struttura giornalistica chiamata Data Center.

Certo è più semplice immaginare di lavorare giornalisticamente sui dati in paesi dove le pubbliche amministrazioni di dati già li raccolgono e, in una forma o in un'altra li diffondono. La tendenza si incrocia con il movimento civile, politico e istituzionale degli Open Data, che spinge per la diffusione "aperta" dei dati raccolti dalle pubbliche amministrazioni, in formati che ne consentano la riutilizzazione e senza vincoli proprietari. In nome della trasparenza e del controllo dei cittadini sul governo. Questo movimento ha già portato i primi frutti: hanno cominciato gli Stati Uniti 2; poi è stato il momento del Regno Unito 3, il quale ha resi disponibili tutti i fogli di calcolo sul consuntivo e il previsionale della spesa pubblica (Combined Online Information System). I governi di Canada, Australia, Estonia, Nuova Zelanda, Spagna hanno già abbracciato questa linea.

In Italia siamo particolarmente indietro perché vale ancora la norma dell'inizio degli anni '90 per la quale la Pubblica Amministrazione ha l'obbligo di far accedere agli atti solo gli "interessati", senza peraltro un quadro normativo e regolamentare che consenta di precisarne criteri e procedure. Nel 2010, tuttavia, qualcosa ha cominciato a muoversi anche da noi su spinta di gruppi politici, attivisti digitali e funzionari illuminati delle pubbliche amministrazioni. La Regione Piemonte ha cominciato a rilasciare alcuni set di dati, così come anche la Ragioneria dello Stato. Si sono creati movimenti di pressione politica e culturale come il Manifesto per l'Open Government 4 e si creano dal basso "luoghi" digitali dove il poco che è accessibile viene censito e messo a disposizione di tutti.

Un patto per gli anni della transizione. Il data driven jourmalism è un campo, a nostro modo di vedere, molto utile per mettere alla prova giornalisti ed editori: sono in grado di adattare professionalità e organizzazione a nuovi prodotti, contenuti e piattaforme? Forse sì, ma a condizione di essere consapevoli della posta in gioco e di trovare in tempi rapidi accordi su come procedere.

Una recente indagine di McKinsey tra i giornalisti di oltre 500 testate di tutto il mondo mostra che in Europa l'attesa è di avere tra  cinque anni il 51 per cento dei lettori sulla carta, il 31 sui pc, il 15 sugli smart phone, il 12 sui tablet. Crediamo che in questi numeri si sopravvaluti l'incidenza dei personal computer e si sottovaluti quella dei tablet: in ogni caso, è corretto prevedere che i giornali che sporcano le dita saranno ancora vivi per almeno tre lustri. Ne è riprova anche qui la nostra esperienza quotidiana, che vede convivere antiche abitudini e nuove necessità.  Michael Shapinker ha rivelato in un commento sul Financial Times poi riproposto dal Sole24Ore: "Per quanto mi riguarda, se anche trascorro parecchie ore al giorno su Internet e utilizzo vari dispositivi elettronici, leggerò e terrò cari e da conto i libri e i giornali finché sopravviveranno". Anche perché, ha spiegato scherzando, "... se infilate un giornale nella borsa per la spiaggia, che accadrà mai se vi cadrà sugli scogli? Niente, nessun problema. Cosa accadrebbe se a cadere in acqua fosse invece uno dei vostri lettori digitali? Meglio non pensarci neppure!". 

Tutto vero. Ma è altrettanto vero che per scrivere queste righe ci serviva rileggere l'articolo di Shapinker e copiare la citazione esattamente; l'abbiamo trovata subito sull'iPad scaricando la copia arretrata: tempo impiegato, un minuto. Come avremmo fatto solo qualche anno fa, quando il giornale di tre giorni prima era già servito, utilmente, per pulire i vetri delle scale di casa?

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