Il lato b delle gioiellerie non è mai stato tanto chiacchierato. Parliamo di «compro oro», quei bugigattoli che nei paesi emergenti vanno di moda da sempre, dove vendere la collanina del battesimo o l'anello di fidanzamento per tirar su un po' di contanti. Quel che si sa è che si moltiplicano come conigli. Nelle grandi città come nei paesini, in quella sempre più vasta terra desolata di esercizi commerciali agonizzanti, rappresentano forse l'unica categoria in controtendenza. In Lazio e in Sicilia, per dire, negli ultimi tre anni sono aumentati del 60 per cento. In Piemonte e Veneto intorno al 30. La media nazionale è +22,5, calcola Movimprese-InfoCamere, un tasso di crescita che se valesse per il resto dell'economia saremmo la Cina. Sin qui, dunque, tutto bene: un ago col segno più nel pagliaio dei meno. Ma perché così tanti e tutti adesso? Le risposte indiziarie chiamano in causa la crisi, una ghiottissima occasione di evasione fiscale e anche il riciclaggio.
L'invasione dei cartelloni giallo cromo che promettono cash contro vecchie gioie non era dunque solo un'impressione. Gli stessi numeri delle camere di commercio rischiano d'essere sottostimati perché non includono necessariamente le gioiellerie che in tempi di vacche magre hanno preso a comprare, oltre che a vendere, dai clienti. Ma anche con questa tara sono bastati per allertare la Guardia di finanza. «A questo fenomeno in aumento stiamo dedicando una particolare attenzione» assicura il colonnello Flavio Aniello, capo del Nucleo entrate speciali, «c'entra senz'altro che la gente fatica ad arrivare a fine mese e che con la crisi le quotazioni sono cresciute. Ma sullo sfondo potrebbe esserci anche il riciclaggio». Ciò su cui non ha dubbi è che il business si presta bene all'evasione e tira fuori uno schemino colorato per rendere commestibili le differenze tra i regimi dell'Imposta sul valore aggiunto. Per farla davvero molto semplice, i gestori dei compro oro, dichiarando indebitamente «rottami» i gioielli che ricevono, approfittano di un'agevolazione concessa a chi lavora l'oro grezzo, e non pagano l'Iva. Con enormi guadagni. «Se prima potevano sostenere che la legge non era chiara, a maggio la Banca d'Italia ha emanato una circolare in cui li esclude dalla cosiddetta "inversione contabile". Chi continua a far finta di non sapere lo fa a suo rischio e pericolo». Insomma, ruba al fisco, con tutti i rischi del caso.
In Puglia se ne stanno accorgendo più che altrove. «Un paio di grossi casi riguardano due negozi di Manduria che non hanno pagato Iva e altre imposte per 250 mila euro» spiega il comandante provinciale delle fiamme gialle di Bari Nicola Altiero, «mentre a Taranto una sola attività ha evaso per 500 mila». La pista più promettente, nella direzione del salto di qualità criminale, risale a quest'estate. «In una delle principali agenzie nel centro di Bari abbiamo sequestrato otto chili di oggetti d'oro di cui non sapevano documentare l'origine. L'ipotesi accusatoria, oltre alle consuete violazioni fiscali, è ricettazione». Uno niente affatto sorpreso da questo possibile scenario è Michele Cagnazzo, responsabile dell'Osservatorio regionale sulla criminalità. Sono mesi che, in varie sedi pubbliche compresa un'interrogazione parlamentare, denuncia un'inquietante coincidenza: «Dal 2008 al 2010 nella nostra regione i reati contro il patrimonio, in particolar modo scippi e furti di appartamento, sono cresciuti di circa il 70 per cento. Nello stesso periodo abbiamo assistito a un boom equivalente di compro oro, che nel solo capoluogo sono passati da 416 a 700. Non bisogna essere particolarmente complottisti per individuare un possibile nesso. Giovanni Falcone diceva: per abolire i furti arrestate i riciclatori. Noi, invece, li abbiamo legalizzati». Pur stando attenti a non cadere nel tranello cognitivo che gli psicologi chiamano «correlazione illusoria» (se B viene dopo A non significa che A ne sia la causa), la sincronia è suggestiva. A corroborare la possibilità che Cagnazzo non sia completamente fuori strada ci sono anche proiettili di kalashnikov e teste mozzate di animali che, nell'ormai tradizionale lessico famigliare mafioso, gli hanno recapitato dopo le denunce. «L'ultima frontiera» aggiunge «sono quelli su internet come www.cashgold.eu che vanno a prendersi l'oro a casa. Li abbiamo provati: niente registro vidimato e inventarsi un nome, nelle "trattative riservate a domicilio", non è un problema».
Se i finanzieri, prima di sbilanciarsi, aspettano di mettere insieme altre pezze d'appoggio investigative, a ritenere persuasiva a 24 carati la ricostruzione malavitosa è Giuseppe Aquilino, noto gioielliere barese prima ancora che presidente della Confedorafi, l'associazione di categoria. «Ma com'è possibile, secondo voi, che negozietti del genere possano permettersi le gigantesche pubblicità che tappezzano le nostre città?». Ha fatto i conti in tasca ai «cugini poveri» del mondo che rappresenta e si è convinto che, a meno di introdurre varianti illegali, non possono tornare. «In ogni caso anche quando sono imprenditori onesti il motivo per cui nascono come funghi, e sono ormai circa 5000 contro 18 mila gioiellerie, è che i costi di ingresso sono bassissimi, inferiori a pizzerie, forni o qualsiasi altra attività. Basta una bilancia e un locale anche minuscolo». Il suo direttore generale Steven Tranquilli elenca i principali oneri teorici che graverebbero su di loro: «Identificare il compratore, segnare su un registro ogni transazione, aspettare dieci giorni prima di fondere il monile in caso di ripensamento o di controlli di polizia». Tutte cautele in chiave anti-riciclaggio, appunto. «Ma in pratica succede spesso che non le applichino. Perché non si fa un giro per verificare?».
L'esca me la presta Piero De Stefano, gioielliere romano e autorevole gemmologo. Un anonimo braccialetto che, a una valutazione onesta (dagli oltre 30 euro di listino va tolto il 25 per cento costituito dalla lega di metalli che serve per lavorarlo, più un altro 10 per cento che si perderà tra fusione e manipolazione, infine un 10 per cento di margine per l'esercente), dovrebbe essere valutato sui 18-19 euro al grammo. Il tour si svolge tra i quartieri San Giovanni, Appio Tuscolano e Cinecittà di Roma, che hanno una densità di compro oro simile a quella – parimenti sospetta – di solarium nell'assolato hinterland vesuviano. Le divergenze sul peso sono trascurabili, la maggior parte chiede il documento ma le stime variano sino a un quarto, dai 320 ai 395 euro. In un caso, un buco periferico con una bilancina elettronica neppure lontanamente regolamentare, di mattina offrono 280 e di pomeriggio, quando torno per registrare di nascosto, 320. Dopo averne testati una dozzina prove ontologiche di criminalità non si riscontrano. Però mi sono fermato prima della vendita. E non ho idea di quale sarebbe stato il trattamento fiscale una volta conclusa la transazione. La scoperta più sorprendente, forse, è che certe quotazioni sono addirittura superiori a quella del nostro gemmologo di fiducia. «Com'è possibile? Semplice: a differenza di una normale gioielleria, chi fa solo questo di mestiere invece di fondere di volta in volta magari aspetta di farlo con un certo quantitativo, a condizioni migliori. Scegliere di abbassare il margine, poi, è un modo per far girare i soldi. E non sto neppure prendendo in considerazione l'ipotesi che si tratti di coperture per sbiancare i capitali. In quel caso lavorare sottocosto non è un problema». Che è l'ennesimo modo di declinare la vecchia lezione di scetticismo metodologico, mai tanto pertinente, per cui non è tutto oro quel che luccica.
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