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13 dic 2010

Assange, l’America cerca le prove

Potrebbe essere incriminato come complice della gola profonda, il soldato Manning

FRANCESCA PACI

ROMA
Il destino di Julian Assange potrebbe essere deciso domani, quando l’evanescente hacker australiano lascerà il carcere vittoriano di Wandsworth per presentarsi all’udienza con il giudice Riddle. Ma la sua vita è già un romanzo e non si esaurisce nello spionaggio geopolitico. Il legale svedese Bjorn Hurtig sostiene d’avere le prove della cattiva fede delle due testi che lo accusano di violenza sessuale. Avevano uno scopo, spiega al Mail on Sunday. Ma assomiglia tanto alla vendetta d’amore: «Per quel che ho visto nei documenti della polizia svedese quando le donne sono andate a denunciare Assange hanno mentito e avevano un obiettivo che non ha nulla a che fare con i reati. Era più gelosia o delusione da parte loro. Posso dimostrare che almeno una di loro aveva grandi aspettative di qualcosa che sarebbe successo con Julian».

Intanto però i veri avversari di Assange nella partita per la verità affilano armi più sofisticate di quelle della seduzione. Secondo il suo avvocato inglese Mark Stephens gli Stati Uniti vorrebbero consegnarlo alla giustizia americana attraverso una speciale giuria incaricata di stabilire se le prove raccolte contro qualcuno bastino per un processo penale.

«So dagli svedesi che c’è un gran giurì ad Alexandria, vicino al Pentagono, che indaga segretamente sulle accuse ad Assange: se sarà estradato in Svezia le autorità deferiranno la materia agli americani» ha raccontato Stephens ad Al-Jazeera lasciando intendere che le imputazioni sessuali servirebbero a depistare dalla costruzione di un dossier serio. Che la storia stia diventando qualcosa più grosso di quanto effettivamente rivelato? È l’ipotesi del Sunday Times che ricostruisce le manovre di Washington per convincere il soldato Bradley Manning, la gola profonda rea d’aver passato al misterioso paladino della trasparenza tonnellate di documenti top secret, a nominarlo complice e renderlo incriminabile per spionaggio.

«Sono deluso dalla giustizia svedese» ripete Assange, capelli arruffati e dolcevita avana, nello spezzone del nuovo documentario che la Cnn manda in onda a ripetizione. Altro per ora non può dire. Ma chi volesse sapere di più del suo cyberanarchismo non ha che da sintonizzarsi stasera alle 21 sul canale Music Box per ascoltare l’intervista registrata a luglio.

«È preoccupante che i media di tutto il mondo stiano lavorando talmente male che un piccolo gruppo di attivisti riesce a pubblicare un numero di informazioni maggiori di quelle di tutta la stampa mondiale messa insieme» afferma il fondatore di Wikileaks. E pazienza se la stragrande maggioranza delle news diffuse dalla Rete provengono da media tradizionali. Il mezzo vale più del messaggio: «Le informazioni ci arrivano in vari modi, a partire dalla posta ordinaria. Utilizziamo crittografie all’avanguardia per far rimbalzare il materiale su Internet, coprire le tracce, passare attraverso giurisdizioni legali come la Svezia e il Belgio per attuare le protezioni legali».

Mentre il popolo di Wikileaks si prepara contro l’estradizione e gli «hacktivisti» di Anonymous, i sabotatori di MasterCard, Visa e Paypal, minacciano d’impallare per un giorno il sito del Crown Prosecution Service e altri servizi giudiziari britannici, un intellettuale come Stephen M. Walt, senior di Harvard, affida a Foreign Policy la sua provocazione: se arrestiamo l’insider Assange dovremmo arrestare anche Bob Woodward, l’autore del Watergate?

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