Se il federalismo aspettiamo ad attuarlo nel 2013 o 2014... Beh, forse non avremo più le imprese a cui applicarlo». Questo ha detto la presidente di Confindustria Marcegaglia agli imprenditori lombardi riuniti a Cernobbio. E ha suggerito di cominciare dalle regioni che sono pronte, come la Lombardia e diverse altre regioni del Nord. Una ricetta, quella del federalismo a due velocità, che da tempo invocano anche alcuni amministratori locali, ad esempio il sindaco di Torino Chiamparino.
L’uscita della presidente di Confindustria non è piaciuta a Susanna Camusso, la nuova segretaria della Cgil, che ha ammonito: «Attenti al federalismo a due velocità, sarebbe un federalismo non solidale».
Verrebbe da essere d’accordo con Emma Marcegaglia, visto che le aree più produttive del Paese soffocano sotto la burocrazia e le tasse, e visto che il Nord stacca ogni anno un assegno di 50 miliardi di euro al resto del Paese. Un assegno che, se fosse ridotto a 30 o 40 miliardi, permetterebbe alle regioni forti di ripartire, con benefici per tutte le altre.
Io invece, più che d’accordo, sono molto sorpreso. Non so se le due «signore del mondo delle imprese italiane», come le chiama il Corriere della Sera, abbiano seguito la vicenda del federalismo fiscale negli ultimi tre anni, o abbiano trovato il tempo di leggere la Legge 42 e i successivi decreti legislativi. Ho l’impressione di no. Perché, se lo avessero fatto, forse si sarebbero accorte di alcuni problemi, che provo ad elencare.
Primo. La legge che, volendo, avrebbe permesso di far partire un «federalismo a due velocità» non c’è più. Era stata proposta dal Consiglio regionale della Lombardia nella primavera del 2007 (più di tre anni fa), poi era stata inserita nel programma del centro-destra per le elezioni politiche del 2008, ma alla fine venne ritirata su pressioni della sinistra e delle regioni del Mezzogiorno. E infatti la nuova legge (legge 42 del 2009, o legge Calderoli) risulta molto meno coerente e incisiva della prima, se non altro perché è il frutto di negoziazioni politiche estenuanti.
Secondo. L’entrata a regime del federalismo è stata ripetutamente spostata avanti nel tempo, ed ora è prevista al 2019. È chiaro che, anche se il federalismo dovesse funzionare, per quell’epoca le imprese italiane saranno ormai fuori combattimento, stritolate dalla concorrenza internazionale.
Terzo. Il federalismo della nuova legge ha pochissime chance di funzionare (il perché richiederebbe una lunga analisi, ma il lettore interessato la può trovare sul sito della rivista «Polena»:www.polena.net), ma comunque - che funzioni o meno - non potrà mai partire nei tempi che Emma Marcegaglia auspica, ossia prima del 2013-2014. E questo per il semplice motivo che manca l’infrastruttura conoscitiva e legislativa necessaria: i bilanci pubblici centrali e locali, nonostante l’ammirevole lavoro della Copaff e del suo presidente Luca Antonini, non sono a posto né sono aggiornati; le funzioni fondamentali di Regioni ed Enti locali non sono fissate; i metodi per calcolare costi standard e fabbisogni standard devono ancora essere definiti. In poche parole: i famosi «numeri», che da anni vengono giustamente invocati per parlare seriamente di federalismo fiscale, non ci sono, e non ci saranno per un bel po’.
In questa situazione si può anche capire che gli amministratori locali dei territori più efficienti vogliano partire prima. Partire prima, infatti, significa acquisire nuove competenze. Nuove competenze significa nuove risorse (soldi). E nuove risorse significa più potere. Ma il punto è che tutto questo c’entra ben poco con i problemi delle imprese. Dal federalismo le imprese possono aspettarsi soprattutto riduzioni delle aliquote, ma pensare che tali riduzioni possano derivare da un federalismo a due velocità è un’illusione. Il federalismo a due velocità potrebbe dare benefici alle imprese se le amministrazioni virtuose avessero, fin da ora, la disponibilità di una quota consistente delle loro entrate, lasciandole così libere di usare la propria maggiore efficienza per ridurre la pressione fiscale sui produttori. Ma non è così. Quella era l’impostazione della proposta originaria della Lombardia, poi abbandonata per problemi di equilibri politici. Con la legge che l’ha sostituita (Legge 42 del 2009), nuove risorse alle imprese del Nord potranno saltare fuori solo se le regioni del Mezzogiorno ridurranno i loro tassi di evasione e di spreco, entrambi molto maggiori di quelli del Nord. Ecco perché il «federalismo in una sola regione», o in un solo territorio, è un legittimo sogno dei politici, ma è un inganno amaro per chi fa impresa.
Spiace dirlo, ma è troppo tardi. Se si voleva un federalismo funzionante bisognava occuparsene prima, quando la politica fece deragliare il treno del federalismo dalla legge della Lombardia alla Legge Calderoli. Bisognava combattere contro il continuo spostamento in avanti della sua entrata a regime. Bisognava pretendere «assaggi» di federalismo fin da subito, a prescindere dalla entrata in vigore, inevitabilmente lenta, della nuova legge. Bisognava impedire i salvataggi dei comuni e degli enti in dissesto con i quattrini di tutti. Bisognava condurre la lotta all’evasione fiscale con obiettivi territoriali espliciti e differenziati, recuperando di più dove si evade di più. Bisognava che le amministrazioni virtuose, anziché coalizzarsi con quelle sprecone contro il «cattivo» Tremonti, si coalizzassero fra loro per ottenere un briciolo di giustizia nella ripartizione dei tagli, in base all’elementare principio che chi ha già tagliato le spese ha meno margini di manovra di chi non lo ha ancora fatto.
Poiché quasi nulla di tutto ciò è stato fatto, né da parte delle imprese né da parte delle forze sociali, il federalismo che sta per andare in scena è quello che ci meritiamo. Una classe politica distratta non ha voluto capire che qualsiasi riforma tecnicamente complessa si prepara prima, molto prima, e che è inutile varare una legge quando manca tutto l’essenziale per applicarla. O forse l’ha capito benissimo, l’ha sempre saputo, ma il suo obiettivo non era far funzionare il federalismo bene e il prima possibile, bensì usarlo come strumento di propaganda politica, pro o contro a seconda dei punti di vista.
Un vero peccato, perché il federalismo non era una cattiva idea. E perché in molti ci abbiamo sperato. Però, a questo punto, credo sia più sano deporre ogni illusione. Il federalismo è un farmaco che, bene che vada, arriverà quando il paziente sarà morto da alcuni anni. Su questo Emma Marcegaglia ha ragione. Ma il «federalismo a due velocità», o federalismo dei territori forti, non è la soluzione. Può dare più potere al ceto politico locale, ma non più ossigeno alle imprese che combattono per sopravvivere sui mercati. Se vuole più ossigeno, il mondo dei produttori farebbe meglio a chiederlo direttamente, senza tirare in ballo il federalismo. Perché di illusioni il federalismo ne ha già generate abbastanza.
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