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21 gen 2010

Pagati per licenziare. Vita (e rimorsi?) dei cosiddetti «tagliatori di teste »


Clooney li racconta in «Tra le nuvole». Le storie in Italia: «Siamo in 20: 15 mila euro a esubero sanato»




In «Tra le nuvole» l'attore americano interpreta il ruolo di un «tagliatore di teste» (Afp)In America la chiamerebbero terminator, head-chopper... «Lo dicono anche qui: tagliatore di teste». Un lavoro impopolare... «Telefono sotto controllo, chiamate di minaccia la notte, gomme tagliate». È vero che le aziende vi pagano un tanto a testa? «Alcuni si fanno pagare così. A me sembrerebbe davvero di fare il boia. Da dieci anni faccio questo mestiere da libero professionista, dopo una vita in Confindustria a discutere contratti nazionali, dieci anni e non mi sono ancora abituato. È una sofferenza: dietro ogni lavoratore vedo una famiglia». Luciano Tosato è il consulente esterno chiamato dalla Yamaha a guidare la pratica esuberi, a metterci la faccia in mesi di trattative, con gli operai che hanno passato le feste di Natale sul tetto per protesta: tagliare 66 posti, il reparto produttivo della fabbrica di Lesmo. E non solo quello: «In altre dodici aziende seguo ristrutturazioni simili. Lombardia, Genova, Emilia. Tessile, farmaceutico, comunicazione. Certo è dura, passare dai premi di produzione ai tagli». Ma la crisi sembra superata... «Sul fronte occupazione non direi: il peggio verrà da maggio a novembre quando finiranno gli ammortizzatori sociali» cioè la cassa integrazione: ordinaria— crisi passeggera—o straordinaria (cigs) — crisi strutturale a rischio chiusura.
Senza particolari traumi
Luciano Tosato come George Clooney, che nel film Tra le nuvole (Up in the air, in Italia da domani) è Ryan Bingham, un head-chopper che gira l’America licenziando per conto terzi. Le aziende gli delegano il compito di dare il triste annuncio. «Che crisi, è il nostro momento» gongola lui. Non è cinema-denuncia alla Michael Moore ma per Franck Rich, editorialista del New York Times, racconta l’ultima recessione come Furore seppe rappresentare la Grande Depressione. Anche i Clooney/Bingham d’Italia macinano chilometri, specie in auto. «Ma non chiamateci tagliatori di teste», dice Sergio Felici, il consulente che nel 2009 a Roma ha gestito il piano esuberi Mercedes: «Un successo, visto che alla fine hanno accettato la proposta dell’azienda 10 lavoratori in più rispetto all’obiettivo prefissato di 76». Come la dobbiamo chiamare? «Agente del cambiamento ». Anche il soave Ryan Bingham nel film di Jason Reitman (Juno) si presenta con un eufemismo: Career Transition Counselor. E non usa mai la parola «fired». Anche Felici preferisce parlare di «persone fuoriuscite». Quasi sempre «senza particolari traumi». Come? Bisogna «accompagnarli». Cioè? «Se io sono un medico e dico al paziente che devo togliergli un rene, devo anche dirgli cosa accadrà dopo. C’è un fatto doloroso, ma io garantisco anche una prospettiva per il futuro». Soldi, incentivi? «Contano, ovvio: a un certo punto nella trattativa Mercedes i vertici mi hanno detto: "Ma lei da che parte sta?". E io: "Dalla vostra, scucire questi soldi è nel vostro interesse"». Quanti tagliatori, pardon agenti del cambiamento ci sono in Italia? «Veri, una ventina ».

I rischi per le aziende
Perché le aziende hanno bisogno di consulenti esterni? Il management che ci sta a fare? «Non è questione di capacità ma di esperienza. Sono dirigenti addestrati a gestire la crescita, non la crisi». E le risorse umane? «Teoria e poca pratica: negli anni ’80 c’è stata una scuola molto importante di Human Rosources, allora considerate strategiche. Da un po’ non è più così». Difficile che nei «tagli» presso ditte medio-grandi non ci sia il cutter dei «consiglieri di transizione». Andrea Ichino, economista, docente a Bologna e autore con Alberto Alesina de «L’Italia fatta in casa» (Mondadori) sostiene che piccoli imprenditori in crisi ricorrono ai consulenti per non perdere (più che la faccia) tempo ed energie: «Già devono affrontare la crisi. Orientarsi nei meandri della legislazione italiana è complicato: sbagli un documento e rischi il fallimento». Poi bisogna sapere che certi responsabili delle risorse umane fino al giorno prima trattano con i sindacati «quante fette di bresaola mettere in mensa» e il giorno dopo si trovano sul tavolo il macigno dei licenziamenti. L’immagine usata da Sergio Veneziani di Edelman, società che ha curato le pubbliche relazioni di Yamaha, è efficace. Yamaha era partita rifiutando la cassa integrazione (poi concessa): ai 66 licenziandi offriva a suo dire un trattamento più conveniente. Per Tosato «i sindacati spesso non spiegano bene ai lavoratori le offerte delle aziende, più interessati al proprio potere che al bene di chi rappresentano ». Vero o non vero (per Gigi Redaelli della Fim-Cisl Tosato si è dimostrato fin da subito «miope e arrogante ») a Roma il ministro del Lavoro si è schierato con toni duri per la cassa e contro Yamaha: «Ma il responsabile dell’unità di crisi, dottor Di Leo, una sera chiama il sottoscritto per fare i complimenti: "Se tutte le aziende avessero un piano come il vostro, il governo non dovrebbe fare lo scudo fiscale per reperire risorse per la cassa integrazione" ». Per Tosato un uso smodato della «cassa» è un costo per la collettività e rimanda la soluzione del problema. Per il collega Federici invece questo «momento magico» degli ammortizzatori sociali («i politici vogliono tenere basso il tasso di disoccupazione» e i cassintegrati nelle statistiche figurano nell’elenco occupati) è frutto di «una scelta azzeccata, che ha evitato una crisi sociale ben più grave di quella attuale ». Certo bisogna liberarsi di un equivoco, dice Ichino: «Se non cala molto il numero degli occupati, il calo di ore lavorate in Italia è enorme». Ultimo bollettino Istat: disoccupazione all’8,3% —massimo dal marzo 2004—persi in un anno 389.000 posti di lavoro.

Chiarezza e ipocrisia
I numeri fanno paura. E le parole? Esiste un vocabolario del licenziamento italiano? «Vieni subito che acceleriamo i segamenti » scrive il dottor Randelli, responsabile di Elektracar, in una mail al consulente Michichi. Sono i personaggi di un romanzo, «Digestione del personale » di Paolo Cacciolati (Tea). L’autore, 44 anni, piemontese, dirigente in una ditta media di accessori per l’edilizia: ne ha passate molte, a cominciare dalla Fiat, ha dovuto comunicare licenziamenti («la cosa più importante è la chiarezza»), un paio di volte ha avuto l’accortezza di andarsene prima di essere cacciato. «Segare, segare, segare» tuona Randelli. E Michichi da consulente per la formazione si trasforma in gestore dell’outplacement a quindicimila euro per ogni testa «segata». Si fanno pagare così gli head-chopper italiani? «Erano le cifre che giravano un paio di anni fa, bisognerebbe aggiornarle » dice Cacciolati. Si usa davvero la parola segare? «Dipende. Nelle piccole imprese si possono sentire anche termini più brutali come "mandarli affan...". Nelle multinazionali, espressioni più vellutate. E più ipocrite». È ipocrita badare alla forma? Conta se è il capo in persona a prendersi la briga di comunicarlo al dipendente? «Anche nelle aziende medio-piccole è difficile che l’imprenditore ci metta la faccia. Qualunque genere di trattativa è delegata. Figurarsi i tagli». Qualcuno ce la mette ancora, per esempio nel distretto dei salottifici in Puglia. «Nelle piccole imprese è il titolare a dare la notizia» dice Giuseppe Tafuni della Cgil di Altamura. Poche parole: «Passa dal ragioniere per la lettera». In America si chiama pink slip, il foglio rosa del licenziato. A volte da noi non c’è neppure la lettera: «Si licenzia a voce — dice Tafuni —. O magari la lettera è quella che hanno fatto firmare in bianco al momento dell’assunzione: le fanno diventare dimissioni volontarie ». Una truffa, «col ché il lavoratore non ha diritto a quanto previsto e i padroni possono assumere di nuovo». A volte basta un sms: per dire addio ai suoi otto lavoratori la Creativity Tiles di Cavola di Toano (Reggio Emilia) un anno fa delegò un consulente che mandò un sms: «Domani non presentatevi, l’azienda da questo momento è chiusa ».

Il ruolo dei capi ufficio
Casi limite. Una tendenza che caratterizza le aziende italiane la racconta Cacciolati e riguarda «il ruolo dei capi settore, i capi ufficio: se l’azienda ha deciso di tagliarti, da noi non sarà mai il tuo capo diretto a dirtelo. Ho lavorato in Francia, in Spagna, e non è così: lì un capo-settore si occupa di risorse umane anche nelle ore difficili». C’è chi deve farlo: L.T., manager di un’impresa Usa con filiale a Milano, settore informatico, ricorda la prima volta che ha dovuto fare la parte del soave tagliatore Clooney con un dipendente della sua squadra. Poco soave: «Avevo paura di comunicare solo angoscia. È stato lui ad aiutarmi quando è venuto al colloquio: "Non preoccuparti, ho capito cosa devi dirmi". Un mese dopo mi ha chiamato: aveva trovato un altro posto"». Delegare è «un po’ una vigliaccata» dice Stefano Somenzi, dirigente nell’Information Technology da Microsoft a Cisco. Uno che ha provato tutte le posizioni del caso: amministratore delegato con l’incarico di ridurre personale («l’unico modo è essere convinto che stai facendo il bene dell’azienda cioè salvare chi resta») poi lui stesso testa da tagliare. «Fuoriuscito» nel 2008, Somenzi ha fondato la società di consulenza online RTM Consulting. Più che un tele-terminator, Somenzi vuole creare una rete di consulenti per «i sopravvissuti », comprese «le decine di migliaia di manager che oggi non hanno più lavoro. Molti stanno meglio ora, sono quasi sollevati: non c’è peggiore agonia che dover liquidare la tua squadra prima di essere liquidato tu stesso».

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