Abbiamo più di una volta, parlato dell'aumento dell'euro e del petrolio che sale sempre più, ma questo articolo imposta un discorso molto diverso capace di collegare tra loro molti eventi della politica estera:
Nel primo video successivo agli attacchi dell'11 settembre, Osama Bin Laden preconizzava il suo futuro emirato, che avrebbe utilizzato il petrolio come fonte di ricchezza per tutti i musulmani fedeli alla linea, imponendo prezzi superiori ai 100 dollari a barile. Questo obiettivo di prezzo fu immediatamente giudicato come la più grossa delle sparate dello sceicco, nell'assoluta convinzione che lo scontro frontale, allora imminente, si sarebbe rapidamente risolto, e che comunque sarebbe stato del tutto folle ipotizzare un aumento così drastico del petrolio, che in quel momento era ben al di sotto dei 30 dollari. A poco più di sei anni di distanza, siamo arrivati a 90 dollari e ormai sono in molti a scommettere sul raggiungimento della soglia di Bin Laden; anzi, si moltiplicano le attività speculative in questo senso, mentre il notevole afflusso di denaro nelle casse dei Paesi produttori alimenta le più diverse ambizioni, dal nuovo programma di riarmo della Russia alla febbre dei prezzi a Dubai, fino alle frenesie nucleari iraniane, mentre si consolida l'importanza della grande strategia africana della Cina, che mira ad assicurarsi le riserve con cui alimentare la propria crescita.
Il prossimo vertice dell'Opec, previsto per il 17 novembre a Riyadh, dovrebbe quasi sicuramente optare per un nuovo aumento della produzione, ma la domanda nel suo complesso sembra comunque in crescita, il che dovrebbe vanificare ogni politica di controllo dei prezzi, ammesso che l'intenzione sia davvero quella. L'obiettivo, infatti, sembra semmai quello di aumentare le entrate, mentre i maggiori prezzi fanno anche salire le riserve accertate, visto che, a queste condizioni, diviene decisamente vantaggioso scavare anche ad alte profondità e in condizioni del sottosuolo non ottimali. È chiaro, comunque, che la corsa del petrolio non può essere imputata soltanto a fattori contingenti o a manovre speculative: si tratta di un dato di sistema, dovuto essenzialmente al fallimento della strategia americana in Medio Oriente.
La situazione di guerra è, infatti, determinante per due ordini di fattori: da un lato, per la crescita delle tensioni e il moltiplicarsi di episodi che spingono in alto il costo del barile, dall'altro per la debolezza del dollaro, che non a caso continua a macinare record negativi nei confronti dell'euro. Il corso della divisa americana è diretta conseguenza delle scelte di Washington, che ha deciso di entrare in una guerra assai impegnativa senza alzare le tasse, il che è possibile soltanto attuando una politica di svalutazione: una scelta decisamente audace, persino ai limiti dell'incoscienza, che paga soltanto nel caso in cui la guerra sia breve e vittoriosa, innescando un ciclo di crescita che verrebbe successivamente alimentato dai frutti della vittoria. Se, invece, la guerra si trascina a lungo senza vittorie decisive, diventa sempre più difficile far fronte agli impegni di spesa, il deficit pubblico cresce a vista d'occhio e il ciclo economico si fa sempre più fragile, sostenuto da un indebitamento che impedisce l'attuazione della necessaria politica fiscale restrittiva, i cui effetti sull'economia reale sarebbero devastanti. Di conseguenza, il petrolio è una merce sempre più richiesta, il che ne favorisce ovviamente l'aumento di prezzo, prodotta in aree direttamente coinvolte in una guerra o comunque controllate da regimi che hanno ogni interesse ad alimentare le tensioni, il che ha un ulteriore notevole effetto sul corso dei prezzi, e pagato in una valuta debole, il che dà un'ulteriore spinta in questa direzione. Se poi si considera che questa debolezza monetaria è prodotta dalle stesse cause che alimentano gli altri fattori, si arriva alla ciliegina sulla torta e diventa difficile porre un limite all'impennata dei prezzi.
Il risultato di tutto questo è un ovvio rafforzamento di tutte le forze che sostengono il Jihad, dall'Iran che ormai ha entrambi i piedi nel sud iracheno, alle famiglie saudite che finanziano Al Qaeda, fino a tutte le spinte centrifughe in Iraq. Tutto ciò significa che, per quanto possano essere strombazzate le cosiddette good news sull'andamento della nuova strategia del generale Petraeus, la guerra dispone di ampi fondi per andare avanti ancora molto a lungo ed espandersi ulteriormente, continuando ad alimentare la dinamica tra i corsi del petrolio, la debolezza del dollaro e la continuazione dei massacri: a questo punto l'interrogativo non riguarda più la resistenza di Al Qaeda, ma quella degli Stati Uniti.
(da business online)
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