All'epoca, il film di John Badham fu liquidato abbastanza sbrigativamente. Sebbene inquadrasse per lo più un fenomeno di costume in voga alla fine degli anni Settanta, La febbre del sabato sera offriva anche uno spaccato della famiglia italo-americana e affrontava problemi giovanili ancora attuali, come l'emigrazione, l'uso di sostanze stupefacenti, il razzismo e la violenza sessuale
In prima serata su Paramount Channel alle 21 La febbre del sabato sera(Saturday Night Fever), un film musicale del 1977 diretto dal regista John Badham, che lanciò l’attore John Travolta. Si tratta di uno dei film più celebri nella storia del cinema. La pellicola, grazie alla quale John Travolta ottenne la sua definitiva consacrazione, viene concepita come un vero e proprio omaggio alla disco music e al glam dominante negli anni settanta. Le musiche vengono arricchite dai successi musicali in voga all’epoca, tra cui spiccano le canzoni originali dei Bee Gees (soprattutto il brano Stayin’ Alive), che con il film ritrovano una nuova stagione di gloria. La trama tratta comunque tematiche serie ed affronta problemi giovanili tuttora attuali, come l’emigrazione, l’uso di sostanze stupefacenti nelle discoteche, il razzismo, la violenza sessuale e la violenza tra bande. La febbre del sabato sera ebbe un successo straordinario. La colonna sonora della pellicola, Saturday Night Fever, composta per lo più dai celebri brani dei Bee Gees, vendette oltre 40 milioni di copie in tutto il mondo, diventando una delle soundtrack più vendute di tutti i tempi (a quel tempo, prima della pubblicazione di Thrillerdi Michael Jackson, era anche l’album discografico più venduto di sempre in assoluto). Il film fu il primo a dare vita a un vero e proprio cross-media marketing, grazie anche a diversi Tie-in che lo promossero per lungo tempo. Il film si è rivelato essere un grande successo al botteghino, rivelandosi uno dei film musicali con il maggior incasso dell’epoca, condiviso con il film del 1978 Grease, anch’esso interpretato da John Travolta al fianco di Olivia Newton-John. La pellicolà incassò $94,213,182 negli Stati Uniti e $142,900,000 in altri territori, con un guadagno complessivo di $237,113,184 in tutto il mondo.
Sinossi
Tony Manero (Travolta) ha diciannove anni, occhi scuri e fascino latino. Lavora come commesso in un negozio di vernici, ma appena può corre a ballare in discoteca. Del resto in casa la situazione non è idilliaca: il babbo è disoccupato, la mamma è una maniaca bigotta e il fratello prete sta per abbandonare la tonaca. Il film nasce col pretesto di un’inchiesta giornalistica intitolata Riti tribali del nuovo sabato sera, ma quel che conta è la discoteca, l’abito bianco di Travolta e la musica dei Bee Gees.
Tony Manero (Travolta) ha diciannove anni, occhi scuri e fascino latino. Lavora come commesso in un negozio di vernici, ma appena può corre a ballare in discoteca. Del resto in casa la situazione non è idilliaca: il babbo è disoccupato, la mamma è una maniaca bigotta e il fratello prete sta per abbandonare la tonaca. Il film nasce col pretesto di un’inchiesta giornalistica intitolata Riti tribali del nuovo sabato sera, ma quel che conta è la discoteca, l’abito bianco di Travolta e la musica dei Bee Gees.
All’epoca, il film di John Badham fu liquidato abbastanza sbrigativamente e classificato nello scaffale dei documenti relativi al costume di un’epoca, anziché in quello dei veri e propri “oggetti” cinematografici. Per diversi aspetti, di contro, è stato giusto rivalutare La febbre del sabato sera, cosa che per fortuna in questi ultimi anni è avvenuta. Uno di questi aspetti è che Badham ha dimostrato con le sue opere successive di non essere l’ultimissimo arrivato, ma un regista forse non eccelso però affidabile. Le stesse cose si possono dire, con ancora maggiore convinzione, riguardo al protagonista John Travolta (già notato in Carrie di De Palma), sebbene l’attore italo-americano abbia seriamente corso il rischio di rivelarsi una meteora e abbia dovuto attendere una quindicina d’anni (per la precisione fino al 1994 di Pulp Fiction), per ottenere un nuovo successo e la consacrazione a divo e ad interprete di ottimo livello. Poi c’è il valore intrinseco del film, con quello spaccato della famiglia italo-americana, che i vecchi pretendono di tenere ancorata ai valori del loro passato (la religione cattolica, l’assetto patriarcale, il rito del pasto tutti assieme, ecc.), anche se i tempi stavano cambiando e i giovani – come sempre – aspiravano ad uscire dai ghetti, dove si sentivano moralmente obbligati a scontrarsi con i rappresentanti di altre minoranze etniche. E c’è la vita, con le sue piccole e grandi umiliazioni (tra le piccole, gli scappellotti del padre, per una delle scene più divertenti del film: «Smettila! Mi spettini tutto!»), il lavoro in ferramenta a pochi dollari, la sensazione di essere «la merda della famiglia» e l’attesa di qualcosa che non si sa cosa sia e che comunque non si è sicuri se e quando debba arrivare. C’è la musica, che all’epoca fece storcere il naso ai rockettari, ma che tutto sommato non era così male, anche alla luce di quanto si è suonato in discoteca negli ultimi trent’anni e c’è, appunto, quel nuovo tempio che è la discoteca, luogo quasi magico, dove per qualche ora, una volta alla settimana, questo ragazzo bello e un po’ ridicolo può essere guardato come un semidio. C’è perfino, alla conclusione di questo piccolo romanzo di formazione, la raggiunta consapevolezza, maturata attraverso l’incontro-scontro con una partner di ballo assai snob, la sofferta perdita della vocazione da parte del fratello sacerdote, la presa di coscienza dell’ingiustizia attraverso la vittoria nella gara di ballo scippata alla coppia portoricana, la squallida iniziazione sessuale di un’amica da sempre innamorata del protagonista, la morte di un giovane amico – che la vita è fuori da quella discoteca, che non si può affrontarla con il completino bianco e che, contrariamente a quanto Tony sosteneva all’inizio, il ballo è soltanto un ballo.
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