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13 feb 2017
Con la riforma targata Papa Francesco, il prossimo Pontefice sarà eletto con il "proporzionale"
Non solo il prossimo Parlamento italiano, ma pure il futuro Pontefice romano potrebbe essere eletto con il “proporzionale”. Con una differenza, però. Se il vecchio metodo di selezione della classe dirigente, sulla sponda italiana del Tevere, scandisce un ritorno al passato, su quella vaticana costituisce una novità e opera già oggi una svolta irreversibile, con una redistribuzione di potere senza precedenti tra città, nazioni, continenti.
Prendiamo il Senato dei cardinali: “Camera alta” della Chiesa e custodia elitaria del suo mistero. Il club più esclusivo del pianeta, “la stirpe a cui è stata affidata la tutela del lascito delle chiavi”, per dirla con un celebre verso di Karol Wojtyla. Coloro che prestano – almeno dovrebbero - allo Spirito Santo la mente e il cuore, per insediare sulla cattedra di Pietro l’erede di una leadership bimillenaria. Ebbene, da quando è asceso al soglio, nei primi quattro anni di pontificato, Bergoglio ha stravolto, de facto, le regole per accedere al sacro consesso: tagliando i collegi sicuri e introducendo le “preferenze”, così da restituire alla base un’ampia, reale facoltà di scelta.
Da un sistema bloccato e “maggioritario”, dove i capi dei dicasteri di Curia e i presuli delle diocesi tradizionalmente cardinalizie ricevevano di diritto la berretta rossa e si vedevano assegnati all’incirca i tre quarti dei posti disponibili, lasciando agli altri la quota residua – in singolare analogia quantitativa con il 25% del Mattarellum –, passiamo a un contesto nel quale i vescovi di sperdute isole australi o anonimi sobborghi centroamericani, qualora si distinguano per meriti pastorali e vengano eletti ai vertici dei rispettivi episcopati, regionali o continentali, si ritrovano conseguentemente insigniti della porpora: poiché il Pontefice, anziché imporre i capilista dall’alto, gratifica e ratifica le candidature in relazione ai consensi ottenuti dal basso. Il proporzionale, appunto.
Da un format rigido e aristocratico a un modulo fluido e democratico, dunque.
Città che hanno fatto, e scritto, la storia del cristianesimo all’improvviso si ritraggono, spariscono dall’orizzonte globalizzato, mentre le circoscrizioni elettorali crescono, si allargano a dismisura (l’esatto contrario dell’Italicum), diventano transnazionali e consacrano nuove capitali, ridefinendo i centri e i criteri della rappresentanza. Se il conclave ad esempio si tenesse adesso, resterebbero fuori, al momento del fatidico “extra omnes”, Toledo e Mainz, Baltimora e Salvador de Bahia, sedi primigenie, nonché primaziali, di Spagna e Germania, Stati Uniti e Brasile. In compenso, come nei quiz di geografia, i battenti della Sistina si aprirebbero per portare alla ribalta località remote, sovente ignote: Tlanepantla e Merida, sull’altopiano industriale del Messico e ai piedi delle Ande venezuelane; San José de David e Les Cayes, centri minori di Panama e Haiti, affacciati sul Pacifico e sul Caribe. Port-Luis e Port Moresby: il paradiso turistico - finanziario delle Mauritius e l’inferno della capitale della Nuova Guinea, periferia tra le più violente al mondo; Nuku’alofa e Cotabato, l’amena laguna blu dell’arcipelago tongano, che innamorò il capitano Cook, e il tormentato capoluogo di Mindanao, islamica roccaforte delle cattoliche Filippine. Diocesi sparse tra i monti e il mare, immerse nella natura o sommerse dai problemi, accomunate dal fatto che i loro pastori svolgono ruoli apicali, elettivi, nelle federazioni continentali e nelle conferenze nazionali dei vescovi.
Guardando all’Italia verrebbero escluse, inoltre, per la prima volta, Torino e Venezia. La Sindone e il Leone di San Marco. Al loro posto Ancona e Perugia, le Marche e l’Umbria, vestigia dello Stato Pontificio che fu, Per non dire, segnatamente, di Agrigento, a largo della quale splende il faro di Lampedusa, perno del compasso mediterraneo e planetario con cui Francesco ha ruotato e orientato sulla direttrice Nord – Sud l’asse diplomatico della Sede Apostolica.
Insomma se i capi cordata nutrivano l’ossessione di controllare o coltivare le liste dei “papabili”, alla stregua delle correnti di partito, Bergoglio per contro le ha rese imprevedibili. Confermando le indicazioni dei peones e trasformando le assemblee delle organizzazioni episcopali, regione per regione, nelle primarie di un futuro conclave.
Anche quando provengono da una diocesi “convenzionale”, i cardinali nominati da Francesco, nei tre concistori del suo pontificato (febbraio 2014, febbraio 2015 e novembre 2016), sono passati quasi tutti da un battesimo elettorale – a mo’ di prova divina e verifica terrena del carisma -, guadagnandosi la preferenza dei colleghi e guidando per periodi più o meno lunghi, da presidenti o vice, l’episcopato dei propri paesi: da Westminster a Madrid, da Wellington a Valladolid, dalla messicana Morelia, terra di narcos, a Managua, da Santiago del Cile a Brasilia, da Bangkok a Dacca, da Rangoon ad Hanoi, da Ouagadougou, in Burkina Faso, a Bangui, dal Portogallo ad Addis Abeba.
Il metodo, in verità, non si applica sempre in automatico, ma subisce talvolta un correttivo ideologico, che il Pontefice adotta quando un candidato di discosta troppo dalla sua linea: è il caso dell’arcivescovo di Los Angeles, José Gómez, salito alla vicepresidenza dei vescovi USA e lasciato in stand by, a vantaggio dei progressisti Blase Cupich di Chicago e Joseph Tobin di Newark, minoritari tra i confratelli ma funzionali al disegno strategico di costruire un fronte interno anti-Trump. In lista d’attesa pure il presidente dei vescovi dell’Africa e del Madagascar, l’angolano Gabriel Mbilingi, che ha dovuto cedere il passo geografico e anagrafico al giovane Dieudonné Nzapalainga, protagonista dell’apertura del Giubileo a Bangui e matricola del collegio cardinalizio.
Il principio si esplica invece in modo puro, diremmo estremo, a beneficio delle minoranze cristiane: paesi con lo 0,5 e l’1% di battezzati, come il Bangladesh e il Myanmar, vengono ammessi al Senato della Chiesa, per “diritto di tribuna”, nello stesso modo in cui, durante la Prima Repubblica, i piccoli partiti riuscivano a entrare in Parlamento con l’uno, l’uno e mezzo dei voti. La distribuzione delle porpore, così come la pigmentazione del globo, ne risulta drasticamente modificata. E complicata. Un filo rosso e ribelle che nemmeno il più abile tessitore o “eminenza” grigia che dir si voglia saprebbe imbrigliare in un disegno concepito a tavolino, prefigurando, e pianificando, l’habitus geografico e il profilo somatico del prossimo Papa.
Analoga sorte investe il “premio di maggioranza” riservato fin qui al partito italico e in via di progressiva erosione. Se i cardinali del Belpaese, dall’avvento di Bergoglio, sono diminuiti di tre unità soltanto, da 28 a 25, nei prossimi 18 mesi appaiono destinati a scendere sotto i 20, per naturale invecchiamento e senza previsione ragionevole di ricambio, considerando che l’ultimo concistoro ha registrato un’unica new entry, peraltro non residenziale, quella del nunzio a Damasco Mario Zenari.
Resistono per ora città che non potremmo immaginare prive di porpora, benché nulla si possa dare per scontato nell’era di Francesco: Buenos Aires e Santiago, San Paolo e Rio, Caracas e Bogotá, Lima e Città del Messico, Santo Domingo e L’Avana, New York e Washington, Boston e Chicago, Toronto e Québec, Parigi e Lione, Madrid e Barcellona, Lisbona e Vienna, Londra e Armagh (Irlanda), Colonia e Monaco, Praga e Budapest, Varsavia e Cracovia, Milano e Napoli, Nairobi e Dar Es Salaam, Abidjan e Kinshasa, Mumbay e Manila, Hong Kong e Seoul. Ma escono nel frattempo Philadelfia e Detroit, Montreal e Sidney, Tokyo e Giakarta, Kampala e Lagos, Luanda e Maputo, Marsiglia e Siviglia, Berlino e Kiev. Mentre rischiano, per il futuro, Bordeaux e Valencia, Edimburgo e Utrecht, Vilnius e Zagabria, Bologna e Firenze, Palermo e Genova. Con un ricambio generalizzato tout azimut e, in particolare, un netto ridimensionamento dell’Europa, che su scala mondiale rappresenta in fondo solo il 23% del cattolicesimo.
L’ago del concistoro indica un conclave a “geografie variabili”, che conserva in questa fase “posti fissi” e quote importanti di maggioritario ma propende, nell’intento del Papa, verso un Mattarellum rovesciato, dove i collegi “sicuri” sembrano destinati a ridursi ulteriormente, fino a un quarto del totale. Del resto il proporzionale vige già nella “Camera bassa” del Sinodo, il “Parlamento” dei Vescovi, eletto in base al numero dei fedeli dei singoli paesi ed equiparabile a un’assemblea legislativa, non solo consultiva, visto che il Papa ne rispetta e assume le deliberazioni. Con dei pro e dei contro, a dire il vero. Da un lato infatti l’esigenza di trovare convergenze al centro, tipica del proporzionalismo, impedisce fughe in avanti e garantisce l’unità ecclesiale. Dall’altro però la ricerca ostinata della mediazione appiattisce le scelte finali su soluzioni al ribasso e affermazioni sfumate. Dove le larghe intese pagano il prezzo di una necessaria, imprescindibile vaghezza, che metta tutti d’accordo
Com’è accaduto nella stesura di Amoris Laetitia, il testo sulla morale familiare: un documento che sul punctum dolens della comunione ai divorziati, decisivo quanto divisivo, dice e non dice, lasciando spazio all’opposta interpretazione di progressisti e conservatori. “La sapienza del discernimento riscatta la necessaria ambiguità della vita. Ma bisogna penetrare l’ambiguità, bisogna entrarci, come ha fatto il Signore Gesù assumendo la nostra carne”, ha osservato recentemente Francesco. Parametro e scenario che includono anche il corpus della Chiesa istituzione, alle prese con un iter di riforma epocale. Un processo in cui la “legge elettorale” mostra chiaramente la sua doppia natura e funzione: di strumento che all’esterno plasma il volto di un sistema, determinandone l’efficienza e i lineamenti. Ma che all’interno ne deve assicurare la coesione. Senza esporlo al pericolo di strappi, deleteri o esiziali, suscettibili di compromettere gravemente la sua tenuta.
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