La voce non si incrina neppure per un momento. Anche quando chiede perdono ai familiari del piccolo Giuseppe Di Matteo, rapito il 23 novembre del 1993, tenuto prigioniero per 779 giorni, strangolato e sciolto nell'acido. Sembra che Gaspare Spatuzza, il collaboratore di giustizia che sta riscrivendo la storia delle stragi mafiose, e che partecipo' al sequestro del bambino, ''colpevole'' di essere il figlio di un pentito, attenda questo momento da tanto tempo. Senza enfasi, seccamente, riconosce le sue colpe. ''Chiedo perdono alla famiglia del piccolo Giuseppe Di Matteo e a tutta la societa' civile che abbiamo violentato e oltraggiato'', dice davanti ai giudici della corte d'assise di Palermo che per quel delitto lo processano. Ma ''le scuse'' dell'ex braccio destro del boss stragista Giuseppe Graviano non leniscono il dolore di Franca Castellesi, la madre della vittima e moglie di Santino Di Matteo, il pentito che danni, ormai vive, sotto protezione lontano dalla Sicilia. ''Non sono disposta a perdonare nessuno degli assassini di mio figlio, un bambino innocente che e' stato sequestrato, torturato, oltraggiato anche dopo la sua morte'', commenta. E sbotta il padre del piccolo, il pentito Mario Santo Di Matteo: ''Io non perdono ne' Spatuzza ne' gli altri. Ma quale perdono? Hanno fatto una cosa ignobile e ingiusta. Penso tutti i giorni a mio figlio, all'inferno che ha passato. Neanche il Signore ha provato quello che ha subito lui''. E anche la madre di Giuseppe non sa se il ravvedimento di Spatuzza, che era a capo del commando di killer che, travestiti da poliziotti, portarono via il bambino mentre si allenava nel maneggio di Altofonte, e' reale. ''Non so se e' davvero sincero, non ero presente al processo. Forse lo fa per ottenere dei benefici: per questo motivo chiedo che gli assassini di mio figlio non escano mai dal carcere, poi se la vedranno con la loro coscienza''. Ma i benefici al collaboratore di giustizia, ''bocciato'' dalla commissione pentiti del Viminale che non l'ha ammesso al programma di protezione definitivo, non sembrano interessare. ''Non sono qui per barattare la mia liberta''', dice Spatuzza ai giudici. Lui che da dieci anni vive in volontario isolamento, che, nonostante abbia solo la terza elementare, si e' iscritto a una scuola di studi teologici per ''capire l'essenza dell'uomo'', non chiede nulla: ''Il passato - dice - non posso cambiarlo, ma per il presente ho deciso di mettermi a disposizione dello Stato''. A credere al ''ravvedimento morale'' dell'ex sicario e' il procuratore nazionale Piero Grasso, il primo magistrato a cui Spatuzza ha affidato i suoi segreti. ''Ha fatto un percorso religioso reale - spiega - e vive le avversita' come tappe verso l'espiazione''. Anche il Pm Antonio Ingroia crede nel pentimento di Spatuzza. Il rapimento del piccolo Di Matteo, per cui gia' si sono celebrati due processi, al pentito non l'aveva contestato nessuna autorita' giudiziaria. L'ha confessato lui, spontaneamente, come la partecipazione alla strage di via D'Amelio, e tirando in ballo ''il padre'', cosi', per descrivere il legame che li unisce, chiama Giuseppe Graviano. Dell'amicizia col boss di Brancaccio, mandante di decine di omicidi, non rinnega nulla. ''Gliel'ho detto - ripete - che io dalla mafia me ne sarei uscito, ma che il mio affetto per lui non sarebbe mai venuto meno''. Lo dice piu' volte, forse, insinuano alcuni investigatori, in un estremo tentativo di proteggere la moglie e il figlio che l'hanno rinnegato, dopo il pentimento, e vivono ancora nel quartiere. Ma a Graviano, Spatuzza non risparmia nulla. L'ordine di sequestrare il bambino lo ebbe da lui. Come non risparmia nulla agli altri imputati tirati in ballo pesantemente e richiamati alle loro responsabilita'. ''Noi siamo moralmente responsabili - ha aggiunto Spatuzza - della fine di quel bellissimo angelo a cui abbiamo stroncato la vita e ne daremo conto, non solo in questa vita, ma anche, domani dove troveremo qualcuno ad aspettarci''. Delle fasi del rapimento ricorda tutto. Quando il bambino, a cui fu fatto credere che sarebbe andato dal padre, venne preso. Dell'entusiasmo di Giuseppe che urlava: ''papa' mio, amore mio''. E poi lo strazio delle sue grida, quando lo chiusero in un furgone, in attesa che i carcerieri lo prelevassero in un magazzino di Lascari. ''L'abbiamo legato come un animale e l'abbiamo lasciato nel cassone - racconta - Lui piangeva, siamo tornati indietro perche' ci e' uscita fuori quel poco di umanita' che ancora avevamo''. Il bambino era terrorizzato. ''Ci chiamo' dicendo che doveva andare in bagno - ricorda Spatuzza- ma non era vero. Aveva solo paura. Allora tornammo indietro per rassicurarlo e gli dicemmo che ci saremmo rivisti all'indomani, invece non lo rivedemmo mai piu'''.
Nessun commento:
Posta un commento