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23 nov 2010

Myanmar: si chiama business la via della libertà

Mi risulta difficile parlare della Birmania (Myanmar) senza provare una profonda nostalgia. I ricordi della mia prima infanzia sono tutti lì, essendo cresciuto tra i tre e i sei anni a Mandalay. Da quasi mezzo secolo, però, il paese meravigliosamente bello che ricordo è nella morsa di un regime militare inverosimilmente autoritario, ha istituzioni allo sfascio, pratica l'arresto in modo arbitrario, la tortura in maniera diffusa, ed è abitato da molteplici comunità di etnie minoritarie terrorizzate. La situazione è rimasta tale così a lungo che ormai un senso di disfattismo compenetra perfino chi è ottimista ed è elettrizzato da piccoli gesti di pietà.
Di conseguenza, in coincidenza con la liberazione di Aung San Suu Kyi da un domicilio coatto ingiusto – occasione concreta per festeggiare – è opportuno altresì riflettere con chiarezza su quello che la comunità internazionale può concretamente fare per appoggiare la sua causa.
Che cosa può fare la comunità internazionale? Molti analisti di questioni birmane chiedono da tempo l'invio di una commissione di indagine internazionale, se possibile guidata dalle Nazioni Unite. Le motivazioni per svolgere un'inchiesta sono solide e molteplici, soprattutto dopo la manipolazione delle recenti elezioni. Vi sono in ogni caso alcuni provvedimenti immediati che possono essere varati allo scopo di esercitare maggiori pressioni sul regime.
Prima di tutto occorre delineare ex novo l'insieme di sanzioni ed embargo in vigore al momento. Sanzioni generiche che colpiscono la popolazione birmana – per esempio ponendo restrizioni alle esportazioni di capi di abbigliamento – possono essere sostituite da sanzioni che prendano invece di mira direttamente il regime, colpendo per esempio le attività alle quali si dedica preferibilmente chi ne fa parte. In cima all'elenco delle possibili sanzioni occorre naturalmente concordare un embargo su armi e armamenti di ogni tipo, e vi sono ottimi motivi per approvare sanzioni su alcuni prodotti – dai minerali alle pietre preziose, dal petrolio al gas – che assicurano consistenti guadagni al regime.

Si potrebbe quindi proseguire efficacemente vietando i viaggi all'estero a chiunque faccia parte del regime o sia associabile a esso. Risulterebbero utili anche restrizioni finanziarie sulle grosse transazioni attuate da imprese nelle quali siano coinvolte direttamente o indirettamente le autorità militari.
I paesi confinanti hanno una responsabilità particolare. Il governo cinese è il sostenitore più importante del regime, in quanto garantisce importanti rapporti di lavoro alle imprese (non soltanto nei settori del petrolio e del gas) e mecenatismo politico. Chi si reca in visita mi riferisce che Mandalay ormai è in buona parte amministrata da cinesi, e che uomini d'affari e aziende cinesi occupano la maggior parte dei quartieri più eleganti e dei nuovi edifici.
La Cina non è la sola: si potrebbero infatti criticare anche India e Thailandia per le loro politiche che appoggiano in modo particolare il regime birmano. Questi paesi dovrebbero comprendere che un cambiamento di regime non è importante soltanto da un punto di vista morale, ma è anche nel loro stesso interesse a lungo termine. Prima o poi i tiranni cadranno, ma in ogni caso i ricordi del popolo birmano che si è sentito tradito dureranno molto più a lungo. L'intensità dell'antiamericanismo, una delle forze più importanti in America Latina oggi – riconducibile all'appoggio dato in passato dagli Stati Uniti a dittatori crudeli – è indice di qualcosa che i paesi confinanti con la Birmania dovrebbero voler evitare.
Eppure, occorre anche una strategia che arrivi al di là dei paesi confinanti. Parecchi paesi occidentali intrattengono rapporti d'affari molto intensi con la Birmania, per esempio nel settore petrolifero. Nondimeno, finora nessuno – né l'Unione Europea, né gli Stati Uniti, né Svizzera, Australia o Canada - ha utilizzato contro il regime l'arma delle sanzioni finanziarie. I paesi occidentali sanno essere pungenti a parole, allorché denunciano i governanti birmani, ma tenuto conto che non fanno tutto ciò che è in loro potere fare concretamente, risulta estremamente più difficile convincere Cina, India e Tailandia a fare anche loro ciò che è giusto.
Infine, dobbiamo iniziare a riflettere su come un governo post-giunta militare dovrebbe occuparsi dei colpevoli del passato, sia perché questa sarà una questione assai importante in uno scenario non-disfattista, sia perché rientra tra le considerazioni che gli odierni personaggi di regime si staranno facendo in merito a ciò che possono ragionevolmente attendersi, qualora dovessero rinunciare al potere. In questo caso possono tornare utili e d'esempio le leadership illuminate di Desmond Tutu e di Nelson Mandela, che non minacciarono sanguinose vendette, ma scelsero in modo perspicace di offrire protezione in cambio di pentimento. Perfino i più sanguinari devono poter trovare una loro via di uscita, se non intendono andare avanti a lottare e tiranneggiare il prossimo fino alla fine.
Verso la fine del marzo 1999 ricevetti una telefonata da un vecchio amico, Michel Aris, marito di Aung San Suu Kyi. Appresi da lui stesso che era gravemente malato per un cancro alla prostata. Michel mi disse – come già aveva fatto molte altre volte in passato – che scopo di tutta la sua vita era sempre stato quello di aiutare Suu Kyi e di agire a favore della libertà della Birmania. Non voleva morire, sperava che altri avrebbero continuato a concentrarsi su ciò che era necessario fare.
Pochi giorni dopo ricevetti un'altra telefonata con la quale mi comunicarono che Michael era morto. Era il giorno del suo compleanno. Michael Aris non è più tra noi, ma il bisogno di mettere in atto quel che egli aveva indicato è oggi particolarmente forte. Durante le recenti elezioni in Birmania abbiamo assistito a quella che Vaclav Havel ha definito «una scimmiottatura della libera espressione popolare, nella quale la popolazione in realtà ha votato per paura e senza speranza».
Con fermezza e saggezza anche i tiranni potranno essere costretti a farsi da parte. Il popolo birmano potrà tornare alla libertà.

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