Non bastano l'allure continentale e le aspirazioni mitteleuropee. Nemmeno l'Expo del 2015, Piazza Affari o il Quadrilatero della moda. Milano si rassegni: è una metropoli meno globale di Roma. Lo certifica nero su bianco l'indice Global Cities 2010, redatto da A.T. Kearney. Chicago Council on global affairs e Foreign Policy: la capitale è al 28esimo posto, il capoluogo lombardo solo al 42esimo. Milano battuta anche da Città del Messico, da San Paolo, da Bangkok, persino da quella Istanbul che dice di avere le carte in regola per entrare in Europa.
La vittoria romana è tutta "merito" della crisi economica. «Dei vari indicatori economici, culturali e sociali che vanno a comporre l'indice, quello che ha abbassato consistentemente il punteggio milanese riguarda proprio il business», spiega Luca Rossi, managing Partner di A.T. Kearney Mediterranean Unit, che è nato a Roma ma vive a Milano, e per questo giura di essere neutrale.
«La contrazione dei mercati, ma anche la scarsa organizzazione di eventi business in città hanno fortemente penalizzato Milano, mentre Roma è addirittura migliorata dal punto di vista del ruolo politico internazionale. Il risultato sono appunto 14 posizioni di stacco».
Chi sono le vere regine della globalizzazione? Politicamente influenti a livello mondiale, cruciali dal punto di vista economico, con un capitale umano di alta qualità, e un'offerta culturale di spessore internazionale. A dir la verità, sempre le stesse: New York al primo posto, poi Londra, Tokyo, Parigi, Hong Kong. «L'unica vera sorpresa, nella top ten, è quella di Sidney» ammette Rossi. Soltanto due anni fa, la città australiana era al 16esimo posto. Poi la diffusione della banda larga, la vivace offerta culturale e un'apertura marcata alle notizie internazionali, anziché solo a quelle locali, sui suoi giornali le hanno fatto fare il balzo.
Per le grandi megalopoli emergenti, da Pechino a Mosca a Dubai, c'è invece ancora molta strada da fare. Rossi non è ottimista: «Prima di vederne entrare una fra le prime dieci, ci vorranno almeno 15 o vent'anni». Cosa penalizza queste città sterminate, che superano i 10 millioni di abitanti, che hanno un Pil in invidiabile corsa, e che attirano sempre più investitori stranieri? Il dinamismo economico non basta: «Concetti come la democrazia o la libertà intellettuale, vale a dire i cambiamenti culturali e quelli politici, richiedono tempi lunghi», riassume l'esperto di A.T. Kearney.
Insomma: sulla capacità di Pechino di essere un grande mercato di consumatori o di ospitare le Olimpiadi nessuno ormai avanza dubbi. Difficilmente, però, le grandi istituzioni internazionali - come l'Onu o la Wto - decideranno di trasferire qui i loro quartier generali, così come l'offerta di libri, riviste e spettacoli teatrali ci metterà ancora un po', prima di diventare effettivamente pluralista. Quanto poi al peso di Bangkok o di Buenos Aires sullo scacchiere politico, nessuno si aspetta un rapido loro ingresso fra i grandi del G7. Nemmeno del G20.
QUESTI I CRITERI
Un voto in cinque tappe
Ogni città viene valutata secondo cinque parametri. Il primo è l'attività economica: dal numero di multinazionali presenti al valore del suo mercato dei capitali. Il secondo riguarda il capitale umano: qualità delle università, presenza di scuole internazionali, esistenza di un'immigrazione qualificata. Il terzo riguarda la sfera dell'informazione: presenza di notizie internazionali nei giornali locali, censura, abbonamenti alla banda larga. Il quarto riguarda l'offerta culturale: mostre, eventi sportivi, concerti. L'ultimo infine, riguarda la rilevanza politica: numero di ambasciate, presenza di organizzazioni internazionali, promozione di think tank e di conferenze
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