Tensione e posti di blocco vicino al bunker del Colonnello
TRIPOLI - Vedi macchine con le bandiere verdi ai finestrini, che sfrecciano e suonano i clacson lungo l'autostrada, perché si sappia che questa è ancora Tripoli, la città del Raìs, ben stretta e fedele al fianco di Gheddafi, nonostante tutto. Tripoli, finalmente. Ma c'è aria grave da resa dei conti.
Città divisa, di umori contrapposti, la bolgia di chi scappa all'aeroporto e la frenesia di chi resta. Però negli occhi di tutti, indistintamente, intuisci la ferocia degli ultimi giorni. Poi a un certo punto il traffico si blocca, un camion si ferma, ma non c'è semaforo, tutte le auto come obbedissero a un unico comando. Spuntano in mezzo alla strada, armati di mitra, dei giovani miliziani del governo. Sono i fanatici del Colonnello, furiosi con i suoi nemici e pronti a morire per lui. Ci sono anche dei poliziotti in uniforme in mezzo a loro, ma sembrano intimoriti dalla baldanza superiore dei governativi e li lasciano fare. Ed ecco che questi puntano dritti verso di noi, sette giornalisti italiani stipati in due macchine affittate con fatica all'aeroporto e guidate da autisti che non hanno, giustamente, alcuna voglia di sottrarsi al controllo. È un posto di blocco. E bisogna fermarsi. I miliziani in borghese, sei o sette, devono aver fatto caso alle nostre facce, facce nuove, di occidentali che arrivano oggi, invece di andarsene alla svelta, facce mai viste in giro, che in questa guerra fatta anche di spie e di propaganda attirano ora i loro sospetti e fanno crescere di molto la tensione.
Così, ci aprono a brutto muso le portiere e ci fanno uscire spintonando. Imbracciano i fucili e sembrano animati da pessime intenzioni. «Sono italiano» , dico allora io semplicemente, mostrando il passaporto col visto e accennando un sorriso di amicizia. Alla parola «italiano» , però, uno di loro ha un'esplosione terribile di rabbia, grida qualcosa in arabo e mi colpisce al volto, facendo volare via gli occhiali (intatti) e lasciandomi sordo per un po' all'orecchio destro. Poi mi frugano nelle tasche, mi prendono il telefono satellitare e mi invitano ad entrare in un gabbiotto al lato della strada, dove davvero temo che possa concludersi il pestaggio. Per fortuna, però, grazie anche all'intervento dei miei colleghi che riescono con pazienza a spiegare al gruppo la nostra completa inoffensività, lentamente la matassa si sbroglia, ci vengono restituiti soldi e satellitari e il ragazzo che mi ha colpito mi tende la mano in segno di scuse. Le accetto, naturalmente. E stringo la sua. Ma è il segno di una città ormai rabbiosa, con i nervi scoperti, che si sente accerchiata e difende il suo Raìs da tutto e tutti. Vicino al luogo dove i miliziani ci hanno fermato, non a caso, c'è la caserma di Bab Al Azizya, il bunker da dove Muammar Gheddafi in queste ore sta lanciando la sua controffensiva, la sua dura risposta ai «traditori» di Zawiya e Misurata, ai ribelli che invocano ora la liberazione anche della Tripolitania e che lui invece considera solo come dei «giovani drogati da Bin Laden» che hanno ingoiato senza saperlo lo yogurt avvelenato da Al Qaeda.
Vicino a Bab Al Azizya anche un bambino che cammina dando la mano a sua madre è fasciato da una bandiera verde, quasi più alta di lui. Dimostrazione di totale appartenenza, orgoglio devoto, di generazione in generazione. Eppure in tanti ora stanno scappando. L'aeroporto internazionale da giorni si è trasformato in un bivacco apocalittico, un caravanserraglio di egiziani, eritrei, tunisini. Il volto del Raìs troneggia dall'alto su decine di manifesti, eppure in basso nell'area dei check-in c'è l'Africa che preme per andarsene e lasciare la sua Guida al suo destino. La calca è indescrivibile, le guardie portano mascherine sul viso come quelle anti-Sars, quasi diecimila persone dormono all'aperto su coperte e tappeti ormai laceri e si difendono a malapena dal vento freddo che sbrana i palmizi. C'è chi paga mazzette ai poliziotti per guadagnare qualche passo nella fila. Le banche intanto hanno finito i soldi e i dinari si comprano al mercato nero. Sono i due volti di Tripoli, oggi. La disperazione e l'orgoglio. Se chiedi come finirà a Salam Amar Ibzae, che è appena atterrato dalla Germania per stare vicino ai suoi, lui ti risponde che «ci vorrà coraggio nei prossimi giorni, perché Lui può cadere da un momento all'altro…» . E si capisce il riferimento. Ma se ti sposti di un metro e interroghi appena il suo vicino di trolley, il signor Amari che dice di lavorare in Italia nel business del petrolio, ecco che riceverai questa risposta: «Guerra? Ma quale guerra, dove la vedete? Tripoli oggi è una città sicura. Come Roma».
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