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26 nov 2010

Il racconto choc della donna rapita: "Ho temuto di essere violentata e uccisa"

Il racconto choc della donna rapita: "Ho temuto di essere violentata e uccisa"

MARCELLA PAU CON IL MARITO E LA FIGLIA (FOTO SATTA)



Pestata, legata, incatenata, sbattuta dentro un bagagliaio. Marcella Pau ha temuto di essere violentata e uccisa. Ora è libera e i suoi sequestratori in cella. Racconta la sua notte di terrore per due ore nelle mani dei malviventi. «Mi sento una miracolata», dice. E' rimasta meravigliata che i due rapitori fossero compaesani ben noti, Giacinto e Michele Costa. di STEFANO LENZA

Pestata, legata, incatenata, sbattuta dentro un bagagliaio. Marcella Pau ha temuto di essere violentata e uccisa. Due ore di terrore. La paura le è rimasta appiccicata addosso. Ora è libera e i suoi sequestratori in cella. Eppure trema, piange ogni volta che un amico, un conoscente viene a confortarla. La figlia Letizia la accarezza e la conforta, abbracciata a lei sul divano davanti alla vetrata da cui si vede il mare. Ma anche la casa che doveva essere la sua prigione da ostaggio. Ricorda con fatica, ma con precisione, Marcella. E alle sue parole non c'è nulla da aggiungere.

L'AGGUATO. «Sono arrivata a Maiorca verso le otto meno dieci, ho parcheggiato al solito posto e spento i fari. Stavo prendendo la borsa quando ho visto quei due incappucciati sbucare dal rudere accanto a casa e venirmi incontro. Ho urlato perché temevo per Laura. La bambina ha capito e ha subito richiuso la porta. Mi dicevano che dovevo mettere in moto e partire. Io cercavo di prendere tempo ma loro mi hanno afferrato al collo e puntato una pistola al fianco: "Se non fai da brava ti ammazziamo". Uno è rimasto qua e l'altro si è seduto accanto a me, dicendomi di andare verso Nuditta. Di fronte alla discoteca Pata Pata mi ha ordinato di imboccare la strada per Agrustos. Ero terrorizzata e stavo sbagliando direzione. É diventato furioso: "Cosa stai facendo? Attenta perché ti picchio e poi ti ammazzo". Ci siamo diretti verso il villaggio ma una volta lì ha voluto che tornassi indietro. Ad Agrustos abbiamo svoltato a sinistra, poi mi ha fatto fermare e col suo telefono ha inviato un segnale a qualcuno. In lontananza ho visto i fari di un'altra vettura dirigersi verso la pineta. Volevo farlo parlare ma lui pronunciava solo poche parole. Una volta fermi è sceso dalla Mercedes e si è piazzato davanti al mio sportello. Ha fatto un cenno a qualcuno ed è arrivata l'altra auto. L'autista è venuto e mi ha tirato fuori con forza dal posto di guida. Mi stava facendo male ma non sentiva ragioni: "Scendi, scendi", ripeteva e mi strattonava. Era violento, mi dava colpi alla schiena per abbassarmi e portarmi fuori. Dopo mi hanno spinta sul cofano e messo dei lacci ai polsi, delle fascette nere stringicavo. Mi sono lamentata per il dolore e ancora una volta sono stati durissimi: "Zitta o ti picchiamo". Mi hanno attaccato un cerotto sulla bocca e infilato la testa in una busta di plastica stringendola al collo con una corda. Ero terrorizzata, avevo paura di soffocare. Li ho supplicati di allentare la stretta. Respiravo con difficoltà. Ho tirato la corda e mi hanno dato un colpo alle mani. Poi hanno forato la busta».

NEL BAGAGLIAIO. «Ho sentito aprire l'altra auto, ma non capivo se era uno sportello o il portellone. Mi hanno buttato dentro e non capivo dove fossi. Toccavo per capire se era un sedile. Ho realizzato di essere nel portabagagli poiché in alto tastavo la lamiera. Solo uno si è messo al volante. L'auto andava veloce e io sbattevo da una parte all'altra. Ho riconosciuto la strada del mare dal fruscio delle frasche sul fondo della vettura. Dopo asfalto e poi ancora strada bianca. Udivo il rombo di auto veloci e ne ho dedotto di essere vicino alla superstrada. Abbiamo girovagato per almeno mezz'ora. Dopo un ultimo sterrato, ci siamo fermati. Dio mio, mi son detta, siamo arrivati, adesso chissà cosa mi fanno. L'autista è sceso dopo un bel po'. Sono trascorsi altri dieci minuti prima che aprisse. Mi ha preso per le gambe e la schiena e mi ha tirato fuori. Abbiamo camminato in mezzo all'erba e tentava di disorientarmi cambiando più volte direzione. L'ho sentito spingere una porta socchiusa e accendere la luce. Vedevo solo ombre. Lui ha stretto ancora di più i lacci e avvolgendomi una catena al polso e bloccandola con un lucchetto. Non parlava. Mi ha spinto sul letto. Ho temuto volesse violentarmi. Mi sono coperta il più possibile, tirando giù fin quasi agli stivali il vestito che indossavo sotto il cappotto. Tremavo, ero nel panico. Lui mi ha tolto la corda dal collo e sollevato un po' la busta di plastica fino a lasciare la bocca scoperta. Spenta la luce, è uscito. C'era molto freddo, buio totale. Con le mani sentivo il materasso senza nulla sopra. Udivo voci all'esterno. Forse parlava al telefono. Ho colto solo una parola in sardo: "in foras".

LA LIBERAZIONE. «Dopo, circa un quarto d'ora dopo, qualcuno chiamava a gran voce "Michele, Michele dove sei". Mamma mia. Se rivelano il nome hanno deciso di uccidermi. Un colpo e la porta si è aperta. Sono scattata in piedi, attaccandomi al muro. Credevo fosse la fine. Lo era davvero ma solo del giorno più brutto della mia vita. "Tranquilla signora, siamo i carabinieri". Hanno acceso la luce e subito mi hanno liberata da cappuccio, cerotto, catene e lacci. Quando ho saputo chi avevano arrestato non riuscivo a crederci. I Costa erano miei clienti. Qualche mese fa, quando la moglie ha partorito, Michele è venuto a prendere dei fiori. Non ricordo se avesse un assegno o il bancomat non funzionasse. Gli ho detto non preoccupati, Michè prendi i fiori e poi ripasserai. E lui: "No Marcè, vado in banca perché devo prendere anche i dolci". Io gli ho dato 50 euro per i dolci. Ho pensato ai fiori per le nozze della sorella, le ho trovato il fotografo. Mi hanno ben ringraziato».

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