Oliver Stone illustra i segreti del suo nuovo «Wall Street
«Questo è il collasso del capitalismo. È il collasso della società in cui viviamo. Mi avevano chiesto molte volte di tornare a Wall Street. Avevo sempre detto no: i sequel non mi piacciono. Poi è arrivato il 2008: un cataclisma che ha cambiato la nostra vita. Una mazzata sui sogni dell'America e anche la fine della sua età imperiale. Non potevo non raccontarlo». Dalla suite della Casa del Mar che a volte Oliver Stone usa come ufficio, l'America da sogno sembra ancora tutta lì: un balconcino appollaiato sui tetti in cotto di un albergo di mattoni, stile coloniale. Sotto una piscina tutta marmi candidi e decorazioni in ferro battuto. Ancora più giù la spiaggia di Santa Monica con la sua cornice di palme. Ma basta uscire, girare un po' per questo quartiere esclusivo di Los Angeles – il mare davanti a Hollywood e Beverly Hills – per scoprire boutique elegantissime e accanto decine di negozi abbandonati. E per imbattersi in intere squadre di homeless che dormono in strada e vivono di elemosina. Il regista vincitore di tre Oscar – perPlatoon, Nato il 4 luglio, e la sceneggiatura di Fuga di mezzanotte – ai quali si aggiungono quelli assegnati agli interpreti, a cominciare da Michael Douglas premiato per il Wall Street di 23 anni fa, è in una strana condizione: trepida per il suo film che esce in questi giorni negli Usa (in Italia e nel resto d'Europa arriverà a ottobre) ma mentalmente è già oltre. L'affresco sul crollo del sistema finanziario l'ha girato nell'inverno scorso e così ora già sguazza nelle polemiche che ha sollevato conSouth of the Border, documentario "militante" sui regimi populisti sudamericani, e intanto lavora alacremente alla sua Storia segreta d'America. Dieci puntate per la televisione nelle quali ripercorre a modo suo alcuni momenti cruciali nella storia degli Stati Uniti, a cominciare dai retroscena della decisione del presidente Truman di lanciare l'atomica su Hiroshima e Nagasaki nel 1945.
Come sempre, è affascinato dai personaggi che gestiscono enormi concentrazioni di potere e da chi osa sfidarli. «Sa chi è il mio eroe italiano? Enrico Mattei. Uno che aveva grandi visioni e coraggio da vendere: ha sfidato da solo gli imperi del petrolio e ha pagato per questo». Dall'"oro nero" delle "sette sorelle" a quello giallo delle banche che, accecate dalla logica del profitto a ogni costo, hanno trascinato il mondo in una crisi devastante, il passo non è poi così lungo. Wall Street del 1987 è entrato nella storia del cinema per il monologo di Gordon Gekko. L'esaltazione dell'avidità, «greed is good», che il corsaro della finanza descrive come il motore dell'umanità. «Funziona», dice Michael Douglas, protagonista di quel film, «ti fa apparire le cose chiare, cattura l'essenza dell'evoluzione dell'essere umano».
C'era, implicito, un giudizio etico di condanna, che molti, però, non hanno percepito. Lei e Douglas avete raccontato di essere stati avvicinati per anni da gente che vi ringraziava perché era entrata in finanza e aveva fatto fortuna, proprio grazie a quelle parole di Gekko. Nel nuovo film non c'è un monologo altrettanto potente, ma un altro fattore umano nel mirino forse sì...
«L'invidia. L'invidia sociale che ha spinto banchieri che consideravamo gente con la testa sulle spalle a comportarsi in modo scriteriato. Quello che lei dice è vero: per anni abbiamo incontrato, con nostro grande sconcerto, gente innamorata del personaggio che avevamo creato. Ci capita ancora oggi. Certo, noi non lo avevamo demonizzato, ma non lo avevamo nemmeno descritto in una luce positiva, come un modello da imitare. E avevamo scandagliato la cultura ipermaterialista dei mercati: la condanna ci sembrava chiara. Molti di quelli che sono stati rapiti dal fascino di Gekko sono oggi finanzieri di mezza età che si sono arricchiti e poi sono divenuti i protagonisti degli eccessi che hanno innescato la crisi. Non tanto per avidità individuale, che c'è da sempre nell'uomo, quanto per mostrarsi più brillanti degli altri banchieri. Società che accumulano profitti miliardari, penthouse da decine di milioni di dollari in cima ai grattacieli di Manhattan, ville sterminate sulle spiagge di Long Island. C'è perfino chi ha spianato le dune sulle rive dell'oceano per poter ostentare una dimora più sontuosa. Una corsa folle, a perdifiato, verso il baratro: tutto sembrava permesso, il principio di responsabilità era svanito, nessuno si preoccupava delle possibili conseguenze delle sue temerarie scelte d'investimento».
Lei non è solo un regista con una forte sensibilità per i temi sociali. È anche il figlio di un agente di cambio. Qui parla, dunque, di un mondo che conosce meglio di altri. Per un po' ci ha anche lavorato in quel mondo, poi è scappato: ha preferito andare a combattere in Vietnam.
«Mio padre ha provato ad allevarmi a sua immagine e somiglianza: conservatore e uomo di finanza. Ho provato, ma non faceva per me. Ho trovato una strada diversa. E… sì, è vero, Wall Street fu per me anche un modo per dialogare con un uomo ormai scomparso. Credo che quel film gli sarebbe piaciuto».
Un mondo che non poteva essere il suo ma che lei ha capito e che ha descritto in modo emozionante, con occhio critico, ma senza demonizzazioni. Anche per questo è stato un grande successo. Il suo nuovo lavoro su Wall Street sembra seguire un percorso diverso: come i più recenti World Trade Center, sull'attacco alle Torri gemelle e W, su George Bush, è un film che opera una sorta di «fictionalization» della realtà: una fiction costruita su fatti realmente accaduti. È stato più difficile?
«Money Never Sleeps ripercorre una storia vera, ma non è certo un documentario. Anzi è soprattutto una storia d'amore che ha come sfondo una crisi finanziaria epocale. Rispetto al film dell'87 è stato tutto più difficile. Allora quello della finanza era un mondo poco noto che affascinava spettatori attratti dalle storie di potere, di denaro, dall'individualismo sfrenato di Gekko. Oggi tutti sanno tutto, il flusso di informazioni finanziarie è continuo, è più difficile attirare l'attenzione del pubblico. Anche perché stavolta raccontiamo non la degenerazione di una persona, con tutte le sue pulsioni umane, ma di un sistema. Per questo ho puntato sulla storia d'amore che riporta al fattore umano».
C'è la storia d'amore, certo, ma anche quella della solitudine di Gekko che, uscito dal carcere, riesce a riconquistare un ruolo nel mondo della finanza, ma non l'affetto della figlia. Com'è il Michael Douglas che ha ritrovato sul set 23 anni dopo, quando non gli era ancora stato diagnosticato il cancro alla gola?
«Ho trovato un interprete e un uomo molto più profondo e duro. Basta guardare il suo volto per capire la differenza: il Gekko del 1987 era un personaggio molto più superficiale. Quello del 2010 è uno che soffre profondamente: la sofferenza di un padre che Michael vive sul set ma anche nella vita reale, perché l'arresto di suo figlio è di poco precedente all'inizio della lavorazione del film».
Nel tratteggiare il personaggio interpretato da Frank Langella, l'anziano banchiere, mentore di Jake Moore (il broker ventenne interpretato da Shia LaBeouf) che ha cercato di cavalcare la nuova finanza ma viene travolto dalla crisi e si suicida, ha pensato a suo padre?
«No, Langella ricorda più un capo della Bear Stearns o della Lehman. È un personaggio molto umano nel rapporto col suo discepolo, ma negli affari è un tipo senza scrupoli. Uno che continua a condurre operazioni spericolate senza capire che il mondo della finanza è cambiato. E finisce in trappola. Come Dick Fuld, l'ultimo capo della Lehman. Mio padre era un arciconservatore che odiava Roosevelt, ha provato a lavarmi il cervello, ma negli affari era un uomo di solidi principi, uno che non ha mai giocato coi soldi altrui. La sua piccola finanziaria fu divorata da Sandy Weil, il banchiere che trasformò Citigroup nella più grande concentrazione bancaria d'America».
Dunque, Langella nella sua storia romanzata del crollo del capitalismo finanziario è un Fuld che, però, si getta sotto una carrozza della metropolitana. E Josh Brolin?
«Lui è più simile ai grandi banchieri che rischiano ma riescono a non affondare, come Blankfein di Goldman Sachs o Diamond della Barclays». Poi c'è il patriarca Eli Wallach. «Lui impersona il partner più vecchio dell'istituzione più solida, diciamo la Goldman Sachs. Quello che riesce sempre a sopravvivere: sembra fragile, in realtà è spietato, non si spaventa mai di nulla».
Come si è trovato a dirigere sul set un giovane leone come Shia LaBeouf, reduce dal trionfo di un film di tutt'altro genere come "Transformers"? Lui considera quest'esperienza professionale un arricchimento, ma ha anche definito lei, il suo regista, «dottore della manipolazione umana».
«Dirigendo un film, non c'è nulla di male nel compiere qualche manipolazione. Basta farlo con la sensibilità di un essere umano. A me Shia piace molto: è energia atomica allo stato puro. È uno di destra, molto di destra. Detesta il leader venezuelano Chávez che a me, invece, piace. Abbiamo discusso spesso, ci siamo azzuffati. Ma è un grande professionista, uno che ha preso il ruolo molto sul serio. Non si è limitato a studiare i meccanismi finanziari: è andato a lavorare in una società di Wall Street, su e giù dal "trading floor" tutti i giorni. Ci ha preso gusto, ha investito sul serio e guadagnato un sacco di soldi. Quando parla di arricchimento, non so se si riferisce a quello artistico o a quello patrimoniale».
Nonostante il suo primo film su Wall Street fosse piaciuto al mondo della finanza, lei si è lamentato di aver trovato, stavolta, molte porte chiuse. A cominciare da quelle della Goldman Sachs. Tanti economisti e finanzieri, da Nouriel Roubini a George Soros, però, l'hanno aiutata. Qual è stato il contributo più prezioso?
«Quello di Eliot Spitzer, l'ex procuratore capo ed ex governatore dello Stato di New York. È stato lui il primo a consigliarci di guardare dentro l'affare Goldman-AG e a farci notare che la gloriosa banca d'affari andava "corta e lunga" su uno stesso affare, cioè scommetteva contro gli investimenti fatti per conto dei suoi stessi clienti».
Che idea si è fatto della crisi dei mercati che ha raccontato? E cosa intende quando dice che questa crisi segna la fine dell'impero americano?
«Non sono un esperto. Vedo un paziente in un letto d'ospedale con un cancro e mi chiedo se sopravviverà. Quello che mi sembra chiaro è che l'impero americano non c'è più: l'era nella quale l'America allargava le sue responsabilità fino a farsi carico dei problemi finanziari, morali e sociali di gran parte del mondo è finita. Non possiamo più essere un poliziotto planetario. Alcune settimane fa Time ha messo in copertina una donna afghana col naso mozzato e il titolo: "Ecco perché non possiamo andarcene". Be', non ha senso: se pretendiamo di intervenire ovunque, nel mondo, vengono commesse atrocità, non ne usciremo mai. Non è più possibile, siamo un Paese impoverito: l'impero interno non è più in grado di sostenere l'impero esterno».
Nei suoi film lei ha sempre esplorato i lati oscuri del sogno americano, ha fatto a pezzi i trionfalismi. Ma i tempi sono cambiati. Con l'"American dream" che sembra colpito a morte, lei racconta un'altra pagina cruda, ma la incornicia in una storia d'amore e sceglie, se non il lieto fine, una conclusione che lascia aperta la porta della speranza. La festa sul terrazzo di New York fa capire che l'America ce la farà. Ma, se non sbaglio, lei lì vuole descrivere anche un'America molto più povera di quella che abbiamo conosciuto fin qui: una festa spartana tra vecchi serbatoi idrici di legno, l'opulenza dei tycoon della finanza è svanita.
«Sì, è così perché saremo un Paese più povero. E, nonostante ciò, ancora minacciato dalle bolle speculative, i palloncini che volano ».
La Cina è il nuovo grande protagonista dell'economia mondiale. E lei ama molto l'Asia. Ha mai pensato di girare lì il suo nuovo film sul mondo degli affari?
«Sì, ci abbiamo pensato, abbiamo anche visionato una sceneggiatura. Ma se fossimo andati in Cina non avremmo più avuto Wall Street. Non era possibile. È questo il luogo dove tutto è iniziato ed è qui che la crisi deve finire, in un modo o nell'altro. Ed è la mia città. Il mio film, in fondo, è una lettera d'amore a New York».
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