Il cosiddetto DDL intercettazioni, al centro negli ultimi mesi di un dibattito tanto vivace come non se ne vedevano da tempo nell'agone politico, nelle piazze reali e virtuali e nella società civile, contiene, tra le tante, due previsioni meno note delle altre al grande pubblico che, pure, minacciano di modificare radicalmente le dinamiche dell'informazione online e contribuire a ridisegnarne ambiti e confini.
La prima è rappresentata dall'attuale comma 29 dell'art. 1 del DDL il quale prevede che l'obbligo di rettifica che attualmente la vecchia legge sulla Stampa - n. 47 del 1948 ovvero una delle poche leggi ancora vigenti nel nostro Paese scritta direttamente dall'assemblea costituente - pone a carico dei soggetti che fanno informazione in forma di impresa e professionalmente (giornali, quotidiani, periodici, telegiornali, radiogiornali, ecc.) venga esteso a tutti "i siti informatici, ivi compresi i giornali quotidiani e periodici diffusi per via telematica".
La disciplina in materia di obbligo di rettifica stabilisce che il soggetto obbligato a darvi corso, debba provvedere alla rettifica entro 48 ore dalla richiesta dell'interessato a pena, in caso contrario di essere condannato ad una sanzione amministrativa sino a 12 mila e cinquecento euro.
Si tratta di una norma pensata - quando ancora ciò accadeva in modo ponderato - e scritta avendo a mente le dinamiche dell'informazione di tipo professionale nelle quali esiste un'impresa editoriale, un giornalista che scrive per mestiere (oltre che, eventualmente, per passione), una redazione luogo di confronto ed organizzazione, un caporedattore ed un direttore responsabile al quale ultimo competono tutte le scelte editoriali.
E' una macchina complessa ed articolata nella quale ogni qualvolta che qualcuno chiede una rettifica si attiva tempestivamente un meccanismo finalizzato a valutare se ha effettivamente diritto ad ottenerla o se, piuttosto, non valga la pena di inserire nel rischio d'impresa anche quello ad una condanna per non aver tempestivamente provveduto alla rettifica e, invece, tenere il punto e continuare a raccontare ai propri lettori o telespettatori la storia per come la si è accertata.
E' un sistema non replicabile nella blogosfera e nella miriade eterogenea di realtà - blog, canali di informazione su YouTube, webtv amatoriali - che, grazie alla Rete ed in Rete, oggi producono la cosiddetta informazione diffusa, liquida, inafferrabile non professionistica ma non per questo necessariamente non professionale.
Se si indirizza a un blogger una richiesta di rettifica, questi non è detto sia lì pronto a riceverla e valutarne la fondatezza come accade in una redazione aperta 24 ore su 24 e, in ogni caso, ben difficilmente il non professionista dell'informazione disporrà di strumenti ed organizzazione idonei ad aiutarlo a capire se chi chiede la rettifica ha, o meno - a norma di legge - diritto ad ottenerla.
In un contesto come questo, caratteristico delle dinamiche dell'informazione 2.0, evidentemente sconosciute al Palazzo, è sin troppo facile prevedere che, richiesto di rettificare, un blogger - quand'anche abbia la fortuna di registrare per tempo la richiesta - vi provvederà senza pensarci due volte: da una parte il rischio di dover pagare più di quanto possa augurarsi di guadagnare con un anno di pubblicità e dall'altra "solo" l'amore e l'attaccamento alla "sua" verità ed alla storia che ha raccontato.
In questo modo però a trionfare, domani, non sarà necessariamente la buona informazione ma semplicemente un'informazione scritta secondo i desiderata di chi può - anche ove abbia torto - "minacciare" una sanzione qualora la storia non venga riscritta secondo il proprio parziale punto di vista.
I padri costituenti non hanno dato vita per questo all'istituto della rettifica ma, piuttosto, per consentire - anche ai più deboli ed a quanti più difficilmente avrebbero potuto ottenere ascolto da un giornale - il diritto di ristabilire la verità, presupposto indefettibile della buona informazione.
Il comma 29 dell'art. 1 del DDL Intercettazioni, quindi, non è sbagliato perché propone di responsabilizzare la blogosfera e le fonti di informazione non professionistica ma, piuttosto, perché, ancora una volta si fonda su uno degli equivoci più ricorrenti della storia moderna del diritto all'informazione: quello secondo cui Internet sarebbe un grande giornale o una grande TV.
Rappresentare, per legge, ad un blogger il semplice rischio - poco conta quanto ed in quanti casi la nuova legge troverebbe davvero applicazione - di dover pagare 12 e 500 euro per aver dato sfogo alla propria passione per l'informazione ed aver raccontato il mondo con i propri occhi, è, probabilmente, sufficiente a trasformare radicalmente la blogosfera: da domani, in Rete, in tanti saremo indotti a scrivere di cucina, musica, ricamo, donne e motori ovvero di argomenti che più difficilmente rischiano di porci in rotta di collisione con i più forti...
Se così sarà, una pagina della storia moderna dell'informazione, nel nostro piccolo Paese, verrà riscritta in controtendenza rispetto a come, quella stessa storia, si sta scrivendo nel resto del mondo.
L'idea di estendere all'informazione non professionistica online, l'obbligo di rettifica è ragione da sola sufficiente a spiegare il diffuso e radicato "no" da parte della Rete ad uno dei disegni di legge più invisi alla popolazione degli internauti italiani.
Ma c'è di più.
Se da una parte, infatti, il DDL c.d. intercettazioni equipara l'informazione non professionistica a quella professionistica quando si tratta di sanzioni e responsabilità, dall'altra, quando in gioco, vi sono diritti e libertà si dimentica di tale equiparazione e torna a "ghettizzare" i non professionisti dell'informazione in un limbo nel quale la ricerca della verità può costar loro ben più cara di un'omessa rettifica ovvero la prigione.
Il comma 27 dell'art. 1 del ddl, ormai noto come "emendamento D'Addario" - dal nome della escort che approfittò dell'occasione per registrare alcune conversazioni con il premier - nel prevedere la reclusione, da sei mesi a quattro anni, per chiunque faccia uso di riprese o registrazioni effettuate in conversazioni cui ha partecipato, esime da tale responsabilità i soli giornalisti appartenenti all'ordine professionale.
E' una disposizione anacronistica che, dipinge l'informazione non professionistica in Rete come "figlia di un Dio minore", tenuta agli stessi obblighi e responsabilità dell'informazione professionistica ma alla quale vengono riconosciuti minori diritti e libertà.
Un giornalista professionista domani potrà utilizzare registrazioni e videoriprese per la sua inchiesta mentre un blogger o, più semplicemente, un non professionista dell'informazione non potrà procedervi.
Difficile dare della norma una spiegazione diversa rispetto a questa: si vuol lasciare il "diritto di inchiesta" nelle mani di quei soli soggetti che operando secondo le tradizionali dinamiche dell'informazione più facilmente possono essere controllati o controllabili utilizzando le leve economiche e politiche che sino a ieri hanno - salvo talune importanti e preziose eccezioni - reso il giornalismo d'inchiesta italiano più un'ambizione ed un promessa che non una realtà.
Legittimare - come sarebbe stato ovvio - anche i non professionisti dell'informazione ad utilizzare certi strumenti nell'ambito di reportage ed inchieste, infatti, avrebbe significato accettare il rischio - evidentemente inviso al Palazzo - che l'informazione libera e non controllabile propria del web si nutrisse anche di inchieste censurate o, comunque, tenute lontane dai media mainstream.
Ecco, dunque, un'altra buona ragione per un "no" a questo DDL e per una ferma adesione - anche in Rete e da parte di quanti fanno informazione in Rete - allo sciopero indetto dalla FNSI: il mondo dell'informazione nel 2010 è uno solo e la libertà di informare - salvo naturalmente rispondere di eventuali abusi - è presupposto indefettibile per tutti quanti vi operano.
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