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8 apr 2013

Quirinale, un gioco di burattini e burattinai: quando le forze oscure guidano l'elezione L'inchiesta / 4. I segretari generali e la lotta di potere che condiziona i candidati. Come diceva Francesco Cossiga: "Il potere ha bisogno di gente che sa stare al microfono e di gente che regala sintonia. E' più importante chi manovra l'audio di chi parla"

I BURATTINAI, le salamandre, gli spioni. C'è un mondo sopra, ombre
semivisibili nella nebbia che sempre prelude al conclave del
Quirinale, e un mondo sotto, un mondo dietro. Ancora più impalpabile,
ineffabile, innominabile.

L'INCHIESTA PARTE 1 / PARTE 2 / PARTE 3

Nomi che non si leggono mai, quasi mai sui giornali. Una battaglia
silenziosa di manovre felpate, coi buoni e i cattivi che somigliano -
per dirlo a chi ha meno di trent'anni - a certi eserciti delle
saghe fantasy. Sono tutti tessitori di trame ma alcuni difendono
l'Impero, altri lo insidiano. Portano maschere, cambiano aspetto. Chi
ha vinto lo si capisce sempre dopo, a guerra finita. "Perché il potere
è fatto così - disse Francesco Cossiga durante un viaggio in cui era
molto di buon umore, andava nei Paesi Baschi ad incontrare di nascosto
alcuni fiancheggiatori dell'Eta, una sua passione - il potere ha
bisogno di gente che sa stare al microfono e di gente che regola la
sintonia della radio. Io ora faccio tutt'e due le cose, ma se dovessi
scegliere direi che è certo più importante quello che manovra l'audio
di quello che parla. Chi parla è un burattino, chi manovra è il
burattinaio".

Cossiga, eletto presidente al primo scrutinio per uno dei rari patti
efficaci fra Pci e Dc, aveva altre passioni, oltre alla consuetudine
con terroristi ed ex terroristi di varie latitudini - li chiamava
"resistenti". Era pazzo per la massoneria, per i servizi segreti, per
i militari. Appena eletto, Pertini ancora in carica, si era presentato
al ministero della Marina ed aveva aperto la porta del Capo di stato
maggiore Marulli, incredulo: "Capitano di fregata Francesco Cossiga ai
suoi ordini", gli aveva detto mettendosi sull'attenti. Riceveva
generali e semplici spalloni dei Servizi al Quirinale, l'ammiraglio
Fulvio Martini presenza costante, costoro gli portavano in dono
soldatini per la sua collezione. Una volta - c'era una cronista, di
fronte a lui - telefonò chiamandolo "carissimo" al colonnello
Tejero, golpista di Spagna, da anni irreperibile per chiunque.
Un'altra volta ricevette un giornalista seduto a terra fra i suoi
"baracchini": passava le giornate così. Parlava alla radio in
frequenze speciali, il suo nome in codice era Andy Capp. Stava in
maniche di camicia seduto sul tappeto e smanettava i grandi apparecchi
assistito dall'elettricista di palazzo, l'amico Pascucci. In stanza
aveva quattro telefoni, tre tv e sempre una scatola di cioccolatini
Baratti. Francesco d'Onofrio andava spesso a riferirgli le cose della
politica. Di più gli piacevano però i retroscena dei massoni, di cui
il Parlamento - diceva - era colmo. Sarebbe stato entusiasta,
oggi, di manovrare e decifrare le primarie per l'elezione del prossimo
Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia, Raffi scade nel 2014 e i
giochi sono aperti. Avere un massone al Quirinale è sempre stata
l'ambizione suprema, per i fratelli. Cossiga aveva in materia una
biblioteca e un'agenda sterminata.

Fu con il Picconatore presidente che si vide l'ultima volta Licio
Gelli passeggiare sotto i portici del Cortile d'onore. Aveva
conservato, da tempi remoti, qualche buon amico. Gelli, sia detto
sempre per chi ha meno di trent'anni, è stato a capo (o al microfono,
per meglio dire. Altri alla sintonia delle frequenze) della loggia
massonica deviata chiamata P2 che ha innervato di sé per decenni il
destino del Paese arrivando in più di un'occasione a un passo dal
prenderlo, ammesso che si possa dire che non lo abbia preso. Una sorta
di Gollum della saga fantasy. Golpista, era entrato al Quirinale con
Saragat complice la passione del Presidente per la caccia. Gelli
lavorava per Giovanni Pofferi, padrone della Lebole di Arezzo che
aveva anche un'azienda di materassi. Questo Pofferi desiderava molto
essere nominato Cavaliere: mandò a Roma Gelli, che in poche settimane
riuscì ad agganciare un paio di funzionari del Quirinale, il ministro
plenipotenziario Raffaele Marras e il colonnello dell'aeronautica
Otello Montorsi, attraverso di loro fece giungere al segretario
particolare del presidente Costantino Belluscio un invito per il
Presidente nella tenuta di caccia in toscana di Pofferi. Invito
accettato. Nel corso della presidenza Saragat Licio Gelli partecipò
come ospite - risulta agli atti - a sedici ricevimenti al
Quirinale anche in occasione di visite di capi di Stato. Era
registrato alla voce: "altri ospiti". Il giorno dell'elezione di
Giovanni Leone, era il dicembre del '71, mandò un telegramma a doppia
firma col gran Maestro Lino Salvini: il messaggio era per il
presidente, rivendicava il merito di aver concorso alla sua elezione
con le decine di parlamentari che diceva di controllare. Chiedeva
udienza, perciò, al nuovo capo di Stato.

In quel periodo Licio Gelli alloggiava all'Excelsior di via Veneto.
Vedeva per consuetudine una volta alla settimana Andreotti, faceva
spesso colazione con Forlani, due volte al mese era invitato a cena
dal presidente del Senato Fanfani, la moglie Maria Pia gli serviva
sformatini di verdure che - annota nei suoi diari - gli provocano
costanti attacchi di stomaco. L'incontro con Leone gli fu accordato
qualche tempo dopo la richiesta dal Segretario generale Nicola
Picella, che aveva ricoperto quel ruolo anche con Saragat. Più avanti
Gelli provò a far ricevere al Quirinale il generale argentino Massera,
questa volta per buona sorte senza successo. Il 15 giugno '78,
all'alba, lo chiamò uno dei suoi informatori dal Colle: il Presidente
sta per dimettersi, gli disse. Informazione corretta. Leone se ne andò
alle dieci di sera, sotto il diluvio. La mattina dopo Gelli disse a
Franco Picchiotti, ex capo di stato maggiore dei Carabinieri: "Troppo
presto e a sorpresa. Si vota fra 15 giorni. Se avessi avuto un mese il
prossimo presidente lo avrei fatto eleggere io". Millantava spesso, ma
non sempre e non del tutto.

Sono passati quasi quarant'anni e sono cambiati i nomi, i volti, la
natura e la ragione delle pressioni. Non è cambiato però il ruolo di
chi quelle pressioni può favorirle o respingerle, di chi può servire
le istituzioni o tradirle. Sergio Piscitello, antico funzionario del
Colle, racconta che grande è il potere delle "salamandre", coloro che
riescono a cambiare colore restando al loro posto, così come immenso è
il potere delle "vestali", i devoti del servizio, custodi della
Presidenza addetti a respingere gli attacchi.

La figura del Segretario generale del Quirinale è strategica nella
battaglia. Può aprire o chiudere la porta. Per dirne solo una: tutti
gli atti alla firma del Presidente - tutti - passano dalla sua
scrivania. In molti casi le forze politiche che hanno determinato
l'elezione del Capo dello Stato hanno posto al candidato come
condizione la scelta del segretario generale. Moro andò da Saragat a
dirgli: ti votiamo, ma devi richiamare in servizio Nicola Picella.
Saragat eseguì. Il barone Picella, nobiluomo di origini liberali, era
stato segretario generale sul finire della presidenza Einaudi.
Entrambi zoppi - Einaudi a destra per un incidente giovanile,
Picella a sinistra per la poliomelite - avanzavano nei corridoi del
Colle affiancati, le due gambe sane al centro, tirando uno da un lato
l'altro dall'altro. Li chiamavano, per questo, gli sciatori. Di
Picella si ricordano le telefonate laconiche: "Hai avuto quella carta?
Perfetto. Mettila via". Dopo Gronchi e Segni Moro volle che Saragat,
di cui non si fidava fino in fondo, fosse sotto la tutela del gelido
Picella, il "Baron Glacèe". Allo stesso modo molti anni dopo la
permanenza di Antonio Maccanico al Colle fu una delle condizioni che
De Mita, Chiaromonte e Andreotti misero all'elezione di Cossiga a
suggello del patto Pci-Dc. Come De Mita, Maccanico - che aveva
assistito da Segretario generale l'esuberante settennato di Pertini -
era irpino. La geografia in politica ha il suo peso. Difatti Cossiga
accettò la condizione fino a che la "brigata Sassari" non fece
prevalere la pretesa che nel posto chiave andasse il sardo Sergio
Berlinguer, cugino del presidente. In una catena di scale mobili fuori
sincrono - i presidenti passano, i segretari generali restano -
Cossiga provò a sua volta a vincolare l'elezione di Spadolini,
indicato come probabile suo successore, alla permanenza di Berlinguer
al Colle. Il patto fu stretto ma la strage di Capaci cambiò la rotta
della storia e fu eletto, all'indomani dell'assassinio, Scalfaro.

Con Oscar Luigi Scalfaro, presidente imprevisto, le "forze oscure"
subiscono un colpo mortale. Con la stessa intransigenza con cui in
gioventù schiaffeggiava le signore scollate dal momento esatto della
sua elezione l'uomo del "No, io non ci sto" smette di aprire le buste
con lo stemma cardinalizio, cessa di rispondere al telefono. Siamo nel
pieno di Tangentopoli, '92-'94. Agli antipodi da Silvio Berlusconi
("Mi dava, coi suoi modi, fastidio persino fisico", diceva l'ex
presidente solo pochi mesi prima di morire) chiama accanto a sè dal
Senato Gaetano Gifuni, che era stato con lui ministro nel breve
governo Fanfani. Le porte del Quirinale restano impermeabili, in
quegli anni, agli spioni ai generali e ai burattinai. A molti leader
politici, persino, che difatti iniziano a considerare Scalfaro un
problema. Pochissimi i consiglieri, sempre filtrati dall'annuire della
figlia Marianna. Solo il capo della Polizia Parisi è ammesso, tra gli
esperti di pericoli, a riferirgli cosa accada nel Paese ivi comprese
le minacce di stragismo mafioso. Se in questo senso Scalfaro ha preso
decisioni, come qualcuno ha sussurrato a proposito della "trattativa"
fra Stato e mafia, si può star certi - assicura oggi chi gli è stato
vicino - che anche in quel caso ha deciso da solo. D'ora in avanti
- da Ciampi in poi - saranno la grande finanza, il mondo degli
affari, gli "agenti sovranazionali" e insieme i piccoli corrotti e le
camorrìe degli appalti che muovono ogni cosa a pretendere di fare da
burattinai. Non ci sono più i materassai: il mondo cambia, comincia
un'altra storia.

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