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29 mar 2013

Zuckerberg in campo in difesa dei cervelli della Silicon Valley

Il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, sosterrà la riforma
dell'immigrazione in America, persuaso che senza dare più visti ai
cervelli del mondo Silicon Valley, dove una start up su tre nasce da
pionieri cresciuti fuori dagli Usa, avvizzirà.



Non sarà, spiega il sito «Politico», un tradizionale lavoro di lobby,
dare soldi a senatori e deputati favorevoli alla nuova legge sostenuta
dal presidente Obama.



Sarà un progetto bipartisan, con consulenti democratici e
repubblicani, per rilanciare idee di altri leader industriali, dal
fondatore di Aol, Case, al capo di Google, Schmidt, sulla riforma dei
permessi di soggiorno e lavoro. Joe Green, ex presidente del sito
NationBuilder e compagno di scuola di Zuckerberg, coprirà
l'informazione online.



Riaprire l'America alle «masse», elogiate nei versi sacri alla Statua
della Libertà, è stato un fattore decisivo nelle elezioni 2012, con
gli ispanici che hanno premiato Obama e punito i repubblicani.
Zuckerberg però sa che in Congresso nessuna riforma potrà passare
senza uno sforzo comune e recluta dunque lo stratega repubblicano Jon
Lerner, vicino al conservatore Grover Norquist, e il consulente Rob
Jesmer, di destra da sempre. Si parte con 20 milioni di dollari
versati da Zuckerberg, (15 milioni e mezzo di euro), poi gli altri
soci fondatori daranno la loro parte.



È un cambiamento nel rapporto tra capitalisti e politica in America.
Se i fratelli Koch hanno finanziato la campagna dell'ex governatore
Romney contro Obama, se l'industria high tech e Hollywood hanno dato
una mano prima a Clinton e poi a Obama, ora Zuckerberg lancia il
finanziamento «social», un «crowdfunding», raccolta di fondi online,
che parte dall'alto e non, stavolta, dal basso. La politica si
inaridisce nel petulante muro contro muro che blocca ogni riforma tra
Casa Bianca e Congresso, in tv e online la discussione diventa solo un
pollice verso o un «I like» come su Facebook, ma Zuckerberg – che ha
già finanziato il governatore del New Jersey Christie, repubblicano
moderato - vuole riaprire la discussione senza intolleranze.



Proprio perché guidano aziende globali, che vivono nel mondo e di
mondo, per cui ogni chiusura, da Washington a Pechino, a Mosca,
diventa subito un guaio, i leader industriali di internet tengono vivo
il dibattito. Nella biografia di Steve Jobs tradotta da Mondadori,
Walter Isaacson ricorda che il visionario fondatore di Apple litigò
quasi con Obama, chiedendogli di concedere più visti agli studenti
internazionali e, davanti alle solite esitazioni del presidente
«Servirebbe prima una riforma organica dell'immigrazione», sbottò:
«Continua così e non ti rieleggono».



La politica si insabbia e i nuovi tycoon guardano ai social media,
dove davvero oggi si forma l'opinione pubblica, germinando poi su
giornali, tv, Parlamento. L'appello di Zuckerberg al dibattito
sull'immigrazione non è solitario. Il premio Breakthrough in «Life
Sciences Foundation» è stato varato in febbraio per sostenere nuovi
scienziati, ingegneri, informatici. Prima ci pensavano le scuole
pubbliche come il City College, la Nasa con i suoi laboratori, il
Pentagono con i «grant» a sostenere la ricerca, ad aprire il futuro
americano. Ora sono finiti i soldi pubblici e Zuckerberg ha dato prima
100 milioni di dollari alle scuole di Newark, centro del New Jersey
mai ripreso dopo le rivolte Anni 60, poi unito le forze nel premio
Breakthrough con Brin di Google, Levinson di Apple ed ex Genentech, il
finanziere russo Milner, per assegnare 3 milioni di dollari a testa a
undici scienziati d'avanguardia.



È un nuovo capitalismo, o se preferite un ritorno al capitalismo dei
mecenati umanitari, i Roosevelt, i Carnegie: conscio che la crisi
fiscale dello Stato – annunciata dallo studioso James O'Connor nel suo
saggio omonimo del 1973 - rende difficili gli investimenti sociali,
convinto che senza cultura, mobilità umana e progresso, crescita,
lavoro e ricchezza languono. Così Mark Zuckerberg, che compirà 30 anni
nel 2014, ha già firmato con Bill Gates e Paul Allen di Microsoft, gli
investitori Warren Buffett e Carl Icahn, ed altri 57 miliardari il
«Giving Pledge», impegno a donare almeno la metà del proprio
patrimonio prima di morire.



Saranno gli industriali e uomini di Wall Street finalmente a svegliare
Casa Bianca e Congresso su emigrazione, ricerca, sviluppo, che
languono anche in America? Che in Europa, e soprattutto in Italia,
nulla di simile si stia muovendo conferma che, mentre denunciamo da
tempo e a voce alta le gravi inadeguatezze dei nostri politici, è in
realtà l'intera nostra classe dirigente, imprenditori, finanzieri e
leader d'azienda inclusi, ad essere in ritardo drammatico davanti ai
bisogni e alle culture del XXI secolo.

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