
Dieci anni di euro: il costo di un successo
Bilancio positivo, entusiasmo in calo. Il 40% degli italiani oggi ritiene che la nuova valuta sia un vantaggio, ma è la metà rispetto al 1998
Un giorno, quando Lorenzo Bini Smaghi era un ventiseienne dottorando in Economia dell'Università di Chicago, si presentò in classe Milton Friedman. Il premio Nobel, l'economista che con John Maynard Keynes più ha segnato il XX secolo, era già in pensione: si trovava lì solo per un seminario. Ma a fine lezione, Bini Smaghi si alzò e pose una domanda che lasciava capire tutto il suo scetticismo su un passaggio della prolusione di Friedman. Il padre della scuola di Chicago ascoltò, ci pensò su e riconobbe che l'appunto poteva avere un fondo di verità.
Venticinque anni dopo, ormai ai vertici della Banca centrale europea, Bini Smaghi si trova a interrogare allo stesso modo un po' inquieto e impertinente il gestore dell'alimentari sotto casa a Cerbaia Val di Pesa, provincia di Firenze. Chiede quanto costavano le sottilette, un barattolo di pelati e un chilo di sale l'ultima volta che furono venduti in lire, e quanto costano oggi. Vuole saperlo perché Bini Smaghi è un banchiere centrale perplesso da ciò che lui stesso, nel titolo del suo libro in uscita da Rizzoli, definisce «il paradosso dell'euro». L'ultimo listino in lire e il più recente in euro dei «Fratelli Rigacci » di Cerbaia finiscono così nell'appendice di tavole fitte di numeri su deficit e tassi del volume. E uova e merendine, più dei diagrammi di frecce e andamenti, vanno dritte al cuore dei dilemmi di questo rientro d'autunno in cui gli italiani si trovano di nuovo a fare i conti con la sindrome da quarta settimana, i rischi di recessione, il sorpasso spagnolo mentre l'euro, scrive il banchiere, «entra nella sua adolescenza».
Bini Smaghi parla di paradosso al singolare, ma ne elenca molti e prova a sminarli. C'è l'orgoglio dei cittadini europei di avere una moneta globale, misto alla paura che sia troppo globale e dunque forte. C'è l'appello dei governi per soluzioni europee ai loro problemi, unito al rifiuto di trasferire prerogative fuori dalle stanze del potere nazionale.
C'è la voglia di una banca centrale che batta l'inflazione, venata dalla tentazione di legarle le mani. Ma il paradosso più radicale è appunto quello da cui Bini Smaghi prende le mosse: è nel passaggio fra le migliaia di italiani in piazza del Campidoglio a festeggiare il battesimo della moneta unica la notte del 31 dicembre 1998 e l'«entusiasmo svanito » di oggi. «Solo la metà degli europei ritiene che l'euro sia un vantaggio», riconosce Bini Smaghi, «e in Italia la percentuale è più bassa, il 40%, la metà rispetto a dieci anni fa». Per questo l'esponente dell'esecutivo della Bce si rivolge all'alimentari sotto casa anziché ai manuali di Chicago, ben conoscendo le accuse: «"L'euro ci ha rovinato!", si sente dire. Oppure: "Con l'euro i prezzi sono raddoppiati, non arriviamo più a fine mese!". È difficile ragionare pacatamente ».
Lui lo fa, a partire dall'esame delle accuse alla moneta unica sulla base delle conversioni drogate del 2002. Trovano così spazio nel libro la schedina del Totocalcio, passata da mille lire a un euro, o la pizza rincarata del 100%. Ma da un discorso razionale emerge anche un'Italia più complessa: dal 2002 a fine 2007, da quando cioè circolano le banconote in euro, i prezzi di ristoranti e hotel sono aumentato del 20%, quelli dei trasporti del 22%, il tabacco e le bevande alcoliche addirittura del 36%. Tutte fiammate molto sopra al tasso ufficiale d'inflazione, quello in cui gli italiani credono sempre di meno. Pochi, però, si accorgono che ad esempio i prezzi dei beni di comunicazione (telefoni, computer e connessioni incluse) sono scesi del 24%. E soprattutto, più che l'euro, sui rincari sembrano pesare le strutture sclerotiche della distribuzione in Italia: si scopre così che a maggio scorso un litro di latte superava 1,50 euro nel centro di Roma ma si vendeva a meno di un euro «in una grande catena distributiva straniera», in Germania. Gli esempi si sprecano, con l'effetto di provocare in Italia un'inflazione «classista», che colpisce più i beni che pesano maggiormente nei panieri delle famiglie meno abbienti. Per Bini Smaghi, questo effetto fa sì che in dieci anni la perdita relativa di potere d'acquisto della fascia più povera sulla più ricca sia stata dell'8%.
Sono i nervi scoperti della crisi italiana di questi anni. Questa, però, non è l'accusa del Giulio Tremonti de «La paura e la speranza», secondo cui per i ceti medi nel mondo globalizzato diminuisce solo il costo del superfluo e aumenta quello del necessario. La tesi di Bini Smaghi, esposta con piglio raziocinante più che per impressioni e suggestioni, è che prendersela con l'euro «è come dare la colpa all'arbitro o alle condizioni del campo per giustificare una sconfitta». Fa comodo, perché aiuta a «eludere i veri problemi e sfuggire alla responsabilità individuale e collettiva».
«Responsabilità» è l'altra parola chiave del banchiere centrale. Attento al suo ruolo, lui non lo dice brutalmente. Ma dalle pagine del «Paradosso» trasuda la frustrazione per un Paese che ha compiuto una scelta (l'euro) senza che i suoi attori ne traessero le conseguenze di modernizzazione, rinunciando alle scorciatoie. I governi che lasciano aumentare la spesa pubblica del 4% dall'99 a oggi. Gli imprenditori che solo dopo anni di chiusure di capannoni capiscono che non si può più competere a colpi di svalutazioni, ma occorre farlo sulla qualità, l'innovazione e la produttività. I sindacati che, a differenza che in Germania e in Francia, faticano a rinunciare ai negoziati centralizzati e a contratti che non premiano né il merito né l'efficienza ma alimentano l'inflazione. Nell'illusione collettiva, magari, che tutto possa essere ancora diluito, perdonato, posposto e che nel decennio della Cina e delle crisi finanziarie si possa davvero restare in Occidente anche così.
È il cuore del capitolo intitolato «l'euro soffoca», a riecheggiare l'accusa mossa in Italia alla moneta unica. Bini Smaghi mostra che per quasi tutti gli altri Paesi, con l'eccezione del Portogallo, non è stato così. In nove anni l'Italia ha perso quasi il 50% di competitività nel manifatturiero sulla Germania, eppure la moneta era la stessa. Se ne può trarre un radicato complesso d'inferiorità e la tentazione di uscire dall'euro: Bini Smaghi non nega che sia concepibile, ma il solo scenario che riesce a immaginare in questo caso è un'altra Argentina dei tango bond in seno all'Europa. O se ne può uscire guardando ai prossimi dieci anni nei quali, scrive, «il peso relativo dell'Europa nel mondo è destinato a diminuire». Con queste sfide, sostiene, si può prendersela ancora con l'euro come fosse un arbitro dell'Ecuador. O dedicare il secondo decennio a rimboccarsi le maniche per l'età della «responsabilità».
corriere
Nessun commento:
Posta un commento