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11 mar 2012

tutti i ragazzi di Facebook



I nipotini di Zuckerberg

Sono giovani, sono ricchi e con la quotazione in Borsa del social network più famoso del pianeta lo saranno ancora di più. Sono arrivati a San Francisco per cambiare il mondo. E ci stanno riuscendo. Ecco come vivono e cosa pensano gli allegri funzionari del nuovo capitalismo

di ENRICO DEAGLIOArrivano ogni sera su enormi pullman-limousine bianchi con i vetri oscurati, supernavette silenziosissime con movimenti sinuosi da balena, che li trasportano dalla Silicon Valley in città. Sono i nuovi "maghi della rete", crescono di numero ogni giorno; tra di loro un migliaio di ragazzi, tra poco, avrà in tasca un milione e mezzo di dollari a testa. È il management di Facebook, il social network fondato da quattro ragazzi nel 2004 per scambiarsi notizie tra ex studenti universitari, e oggi alimentato da 845 milioni di persone. (Per intenderci, Facebook è quella strana cosa che raccoglie soldi per un trapianto di reni, consiglia ricette di cucina, rintraccia compagni di scuola, e in sei mesi ha fatto saltare Ben Ali, Mubarak, Gheddafi e Saleh in Yemen). Facebook sarà ufficialmente quotato alla borsa di New York tra poche settimane; il suo valore è stimato tra gli ottanta e i cento miliardi di dollari, che ne farà una delle più grandi compagnie del pianeta. Chi ci lavora da qualche anno ha avuto, oltre al salario, le stock options che ora potrà fare valere. Li incontri da Starbucks o a qualche festa. E non diresti che sono milionari. Parlano di lavoro, Zynga che si sta rendendo autonoma da Facebook; della debolezza di Facebook perché troppi ormai si collegano dall'iPhone, che però non ha il banner pubblicitario laterale. Zuckerberg che è rimasto "un innovatore", Sheryl Sandberg che è considerata "monetizzatrice". Richard Straver è arrivato dall'Olanda, 
 
ha fondato la sua compagnia, la Tinypay, ed è felice per aver trovato un appartamento di venti metri quadri per 2.500 dollari d'affitto al mese a Noe Valley. Ha anche l'uso di una terrazzina dove può fumare. (Il primo risultato del nuovo boom è lo sconvolgimento del mercato della casa a San Francisco).

Brent lavora alla memorizzazione del riconoscimento vocale per Oracle e mi presenta Karim che ha prodotto una cosa essenziale per Facebook: un comando semplice per mettere un circolino su una faccia in una foto di gruppo. Si beve vino bianco italiano (il nostro concittadino Elio, che ha l'enoteca Plumpjack sulla 24esima, constata che i nuovi dot. com bevono volentieri, ma non vogliono i vini costosi preferiti dai nuovi ricchi), non c'è nessun interesse per l'eleganza (il giubbotto North Face accomuna la Silicon Valley e quelli di Occupy Wall Street), nessuno ha una bellona al seguito, tutti sono abbastanza felici, perché fanno quello che gli piace in una città fascinosa. E sanno anche che con un giornalista si può parlare di tutto, ma non dell'azienda. Il segreto aziendale qui è un'ossessione. (Per Facebook, poi, il momento è delicatissimo: non vogliono neppure che si visitino i loro nuovi uffici).

A guardarla da vicino, questa "nuova classe" che governerà il mondo (e se non sono loro, chi?), è carina, abbastanza puritana, democratica, per nulla arrogante, per nulla rapace, purtroppo ancora al 90 per cento dominata dai maschi. È più sobria della generazione precedente, i dot. com che all'inizio del nuovo secolo scalarono la Borsa con ogni tipo di improbabili aziende elettroniche e poi, in due mesi, finirono sul lastrico (loro e tutti noi che avevamo comprato le loro azioni). Facebook è l'ultima trovata del capitalismo americano. Il capitalismo, si sa, uno può amarlo o odiarlo; in questo caso non si può che restare affascinati dalla capacità di innovazione, rapidità di sviluppo, distruzione continua del precedente ordine. Il tutto è un giocattolo, sensuale per lo stupore che provoca e la libertà che promette, una specie di tinello di famiglia, felicemente bambinesco e facile (milioni usano Facebook semplicemente per giocare a Scarabeo con persone conosciute in fotografia). 

Due le parole che si sentono di più, da queste parti. La prima è che la Silicon Valley (e  tutta la baia di San Francisco) sta vivendo il suo "Rinascimento tecnologico", paragonabile a quello vissuto da Firenze seicento anni fa. Come là nacquero l'individuo, l'ideale di bellezza, la malinconia, così qui si decide della fine della televisione, dei nuovi modi di ascoltare musica, guardare film, scambiarsi merci e denaro, ridefinire la democrazia. Accade qui per la concomitanza di condizioni ambientali particolari: un senso di "fine del mondo" per essere appesi alla fine di un continente, con un terremoto alle porte e l'oro che sgorga dalla terra, un'abitudine alla libertà che fece nascere prima i beat e la poesia, poi il free speech movement dello studente di Berkeley Mario Savio, gli hippy, lo zen e l'Lsd con cui si è formato Steve Jobs e il movimento gay come forza politica. E investitori disposti a finanziare le più pazzesche avventure.

La seconda parola è "piattaforma". Tutto quello che vediamo ora ha la sua pietra angolare nell'iPhone di Steve Jobs, quell'oggetto poco più grande di un pacchetto di sigarette in cui è concentrato tutto il sapere dell'umanità; quell'affaretto che rende reale la Storia siamo noi. Il colonnello Gheddafi che esce da un cunicolo e chiede: "Che cosa succede? Qualcosa non va?" e poi viene linciato in diretta iPhone è l'esempio più terribile delle potenzialità del Nuovo Mondo; e gli scambi di conoscenza che coinvolgono centinaia di milioni di persone sulla piattaforma di Facebook sono il bene collettivo più importante che esista oggi sul pianeta: più della religione, più del petrolio, più dell'acqua. Chi possiede questo patrimonio sta giocando con il potere. Può aiutare milioni di persone a sviluppare la propria anima, oppure può rubargliela (ecco perché gli indiani detestavano la fotografia!), manipolarla e rivenderla. Facebook è a questo bivio. Per questo vale molto.

Lasciata la "storica" sede di Palo Alto, Facebook sistemerà il quartier generale (1.300 persone) negli ex locali della Sun Microsystem di Menlo Park, ai confini meridionali di San Francisco. Non si timbra cartellino; asilo nido; piscina; palestra; mensa per ogni esigenza; ammessi i cani; riunioni all'aperto, passeggiate in bici. Insieme matematici, fisici, programmatori, web designer, esperti di calligrafia, crittografia, antropologi. In outsourcing pubbliche relazioni, marketing, l'enorme ufficio legale, la colossale gestione fisica della tecnologia (milioni di dischi rigidi in enormi hangar in Finlandia, tenuti al fresco al prezzo di un consumo di energia da fare accapponare la pelle). Pagati un dollaro l'ora i poveracci che in qualche parte del mondo puliscono Facebook dalle foto porno.

Ed ecco gli uomini del miracolo. Al posto di comando, Mark Zuckerberg, il fondatore, 27 anni: è il padrone, con poco meno del 30 per cento delle azioni e il 57 per cento del diritto di voto. Vegetariano (tranne che per gli animali che uccide lui stesso: aragoste, polli, una capretta e persino un maiale). Ecco il suo proclama, con cui chiede soldi a Wall Street: "Facebook vuole cambiare il modo in cui il popolo si relaziona con i governi e le istituzioni. Noi vogliamo costruire un dialogo onesto e trasparente che porti a un potere diretto del popolo, a una maggiore responsabilità degli eletti e a soluzioni migliori per i più grandi problemi del nostro tempo. Attraverso di noi, il popolo potrà far sentire la sua voce, come mai è successo nella storia. Attraverso il suo controllo, nuovi leader emergeranno". A Wall Street hanno pensato: ma chi si crede di essere questo ragazzo? Mosè? Lenin? Steve Jobs? John Lennon? Ma alla fine lo quoteranno. A pochi mesi dalle elezioni del presidente, Facebook può avere una forza considerevole. 

Il numero due (molto meno messianica) è Sheryl Sandberg, responsabile economico, 43 anni, sposata con due figli. Tra poco sarà la seconda donna più ricca d'America dopo Oprah Winfrey. Quando Zuckerberg la assunse (Sheryl è laureata a Harvard, ha lavorato nella presidenza Clinton, poi alla Banca Mondiale, poi a Google) Facebook non faceva soldi. Oggi ha entrate per 3,7 miliardi e profitti pubblicitari per un miliardo. Sandberg ha valorizzato il tesoro di Facebook: le donne; sono il 62 per cento degli utenti, le più attive, le più dedicate. E sono loro che comprano. Sandberg è una nuova femminista, favorisce le donne nella compagnia; è un mastino nello strappare il meglio alla concorrenza (Google ancora piange). Il suo futuro, pronosticato da molti: la grande politica, un possibile presidente degli Stati Uniti. Uno dei suoi colpi maggiori? Per lanciare Secret, il deodorante per "le ragazze che non vogliono avere paura", Sheryl Sandberg ha convinto Procter&Gamble a scegliere Facebook. Poi c'è Peter Thiel, tedesco di Francoforte, uno dei primi finanziatori di Facebook, 45 anni. Ha azioni per 2,5 miliardi. Attivista gay, tremendamente conservatore, non ama la democrazia e finanzia il candidato repubblicano Ron Paul. Tra le decine di aziende che ha finanziato, la più importante è PayPal, un rivoluzionario sistema di pagamento online usato da 240 milioni di persone. È pronto a finanziare con centomila dollari gli studenti che vogliono lasciare l'università ("istituzione inutile") per diventare imprenditori. Sean Parker, un altro dei soci fondatori di Facebook, è nato a San Francisco. Era uno dei più famosi hacker, inventò Napster, bestia nera delle case discografiche. Oggi ha 32 anni, si atteggia a dandy, ha comprato una casa da venti milioni di dollari a Manhattan, nascosto un motore Lamborghini nella sua anonima Audi, ma ha anche fondato Causes, piattaforma dedicata alle giuste cause politiche nel mondo: abbattere dittatori, sostenere i deboli e la giustizia sociale, dare una mano ai ribelli. Ha 2,5 miliardi in azioni Facebook. 

Tutta questa allegra compagnia, che ha preso residenza a San Francisco (il settimanale Bay Guardian ha calcolato che basterebbero le tasse sui capital gain dei primi otto uomini d'oro di Facebook per pagare gli stipendi degli ottantamila insegnanti della contea, finanziariamente disastrata), rappresenta un inaspettato futuro del mondo. Un mio vicino di casa, Walker Traylor, trentenne, è arrivato dal North Carolina poco meno di un anno fa. Facebook gli aveva proposto l'assunzione ma l'ha rifiutata, la considera una compagnia troppo grande, un po' troppo "seduta". È diventato invece operation manager di Twit-Vid (scambio di video) per il gusto della sfida. L'altro giorno ha assunto quattro ragazzi: un francese, un colombiano, un russo e un ucraino. Per convincerli ha dovuto dire loro qual era la sfida. Twit-Vid, oggi con ventidue dipendenti, si prepara a sostituire YouTube, troppo anonima e dispersiva. Il futuro è nelle compilation personali, nella libertà di scelta. "Finora", mi dice, "cinquemila persone in tutto il mondo hanno deciso quello che dobbiamo vedere in tv. Da oggi tutto questo è finito, ognuno potrà costruirsi la propria televisione; la nostra missione è cambiare il paradigma mediatico del mondo. Tutta la baia sta esplodendo di lavoro, tutto il mondo sta arrivando qui". 

Le imprese nascono ogni ora. O si ingrandiscono: Zynga, la piattaforma dei giochi; Twitter, che si avvicina a Facebook (500 milioni di utenti); Square, che ha inventato una tavoletta che inserisci nell'iPhone e ti legge le carte di credito per cui, anche in mezzo alla strada, diventi un negozio, con tanto di registratore di cassa; le migliaia di App che vengono finanziate e brevettate ogni mese da ragazzi di diciotto anni, in una stanza d'albergo. Tutto questo farà cadere dittatori, eleggerà presidenti o servirà solo a vendere deodoranti? Sarà il nuovo Grande Fratello, la più grande schedatura poliziesca del pianeta? Nessuno, francamente, lo sa. Ma certo, vista da qui, è la nuova corsa all'oro. E non è solo per i soldi, è una specie di assalto al cielo, la voglia di costruire la più bella tecnologia del mondo. Qui, quando è morto Steve Jobs, migliaia di ragazzi hanno pianto per davvero.

Come hanno pianto per uno che era proprio uno di loro. Si chiamava Ilya Zhitomirskiy, 22 anni, figlio di due matematici russi, lui stesso matematico e genio della crittografia. Aveva fondato Diaspora per farlo diventare il "Facebook killer". Contro quel sistema centralizzato, censorio, padronale, Diaspora avrebbe offerto la totale privacy e la garanzia di uno scambio di informazioni anarchica e libera. Diaspora era a buon punto, aveva ricevuto soldi. Tra i programmatori e nel dibattito sul futuro della Rete, Ilya era un punto di riferimento. Ma ultimamente un algoritmo non aveva funzionato. Ilya andava in bicicletta, era un estremista allegro, partecipava alle gare di ballo. Abitava in un piccolo appartamento nella Mission, il vecchio quartiere ispanico di San Francisco, dove la domenica mattina i predicatori si sfidano con i megafoni proponendo le loro minuscole chiese. Ilya è stato trovato morto in casa, il 15 novembre scorso, probabilmente suicidio. Polizia molto abbottonata. L'ipotesi che gira: troppo carico emotivo su un ragazzo così giovane. Il "Facebook killer" deve ancora arrivare. 

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