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19 ago 2011

Lo scandalo "supercookies" Utenti pedinati senza saperlo

Siti come Msn e Hulu avrebbero usato una nuova tecnologia che permette di seguire i movimenti dei visitatori senza possibilità di essere eliminati. Lo svela una ricerca di Stanford e Berkeley. Le aziende coinvolte negano ogni responsabilità, ma intanto esplode la polemica


   

ROMA - "Le informazioni sono la cosa più preziosa che abbiamo. Lo erano secoli fa, inutile stupirsi che lo siano anche oggi". Eric Schmidt, attuale presidente di Google, commentava così i tanti timori sulla privacy nell'era del digitale a margine di una recente intervista 1. E, ovviamente, aveva ragione: per far soldi con la pubblicità sul world wide web non c'è nulla di più importante che sapere esattamente cosa piace alle oltre due miliardi di persone che la frequentano. 

I cosiddetti "supercookies", apparsi più di un anno fa, servono a questo: tracciare un profilo accurato delle attività online di milioni di utenti. E a differenza dei normali cookies, messi sotto accusa fin dal 1996 e facilmente cancellabili dai nostri pc, stavolta non è possibile né identificarli né disintallarli. Non solo, secondo i ricercatori della Stanford University e di Berkeley, questa nuova genia di software spia è usata da siti statunitensi di prima grandezza come quello di Hulu e Msn.com. 

Sarebbero in grado di ricostruire le nostre peregrinazioni digitali anche se abbiamo impostato dal browser l'eliminazione automatica dei cookies. I dati poi vengono messi a confronto con una lista di mille e cinquecento siti per vedere se uno di questi è stato visitato o meno. Stando al Wall Street Journal, buona parte delle compagnie che hanno usato questa tecnologia non erano a conoscenza della sua reale funzione. Anzi, avrebbero perfino eliminato i supercookies dai loro siti appena contattati dai ricercatori di Stanford e Berkeley malgrado il loro uso non infranga alcuna legge americana. 

Cose che capitano, verrebbe da dire, in un mondo dove la pubblicità online vale 26 miliardi di dollari (dati del 2010) e dove tutte le maggiori compagnie che operano sul web stanno trovando metodi sempre più raffinati per personalizzare i propri servizi ritagliandoli su misura. Eli Pariser, nel suo libro The Filter Bubble: What the Internet Is Hiding from You, pone una data di inizio a questa tendenza: il 4 dicembre del 2009. Quando Google comunicò sul suo blog che da quel momento in poi avrebbe usato ben 57 segnali diversi per capire chi erano i frequentatori del suo motore di ricerca. Dal luogo di accesso al tipo di browser usato, fino ai siti visitati. "Più Google saprà di voi, con il vostro permesso, più i suoi consigli e le sue indicazioni saranno puntuali", disse Eric Schmidt.

Ora però le ricerche che facciamo sul web o su Amazon, come i commenti dei nostri amici su Facebook 2, vengono regolarmente filtrati e allo stesso tempo vanno ad aumentare ad ogni navigazione quel che queste compagnie sanno di noi. 

"La nostra vita comincia ad essere tracciata, peccato che non ne abbiamo il minimo sentore", ha avvertito dalle pagine di Newsweek Jon Leibowitz, a capo della Federal Trade Commission, l'ente statunitense che vigila sui diritti dei consumatori. Di qui la proposta di obbligare Microsoft, Mozilla, Apple e Google ad inserire nei loro browser l'opzione "Do not track" per evitare che gli utenti vengano seguiti quando navigano. Poi però lo stesso Leibowitz è stato costretto ad ammettere che consigli e pubblicità su misura sono di gran lunga più utili di quelli generici. 

Alla fine è questione di punti di vista. Esser tracciati porta dei benefici, ma allo stesso tempo consente ad aziende private e fine di lucro di sapere molto di quel che facciamo, soprattutto se si naviga attraverso uno smartphone. E di darci risposte personalizzate che hanno un effetto collaterale non indifferente, come fa notare Pariser: "Quand'ero piccolo, sono cresciuto in un'area rurale del Maine, Internet era la finestra sul mondo. Oggi, con tutti questi sistemi di tracciamento, il web è su misura e affaccia solo sul cortile di casa mia".  

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